Regia di Sergei Bodrov vedi scheda film
Lunga è la storia, prima di diventare Khan. Il grande Gengis Khan. Si parte dal 1192, “l’anno del topo nero”, fino al 1206, “l’anno della tigre rossa”, nel mezzo c’è tutta la preparazione e l’azione di un grande guerriero e di un uomo che nella carne di molte genti lasciò un segno, sui suoli di altrettanti popoli lasciò il vuoto dietro di sé. Il solo nome di Gengis Khan incuteva terrore, nonostante il suo formidabile carisma, per cui diverrà quasi un idolo per il popolo Mongolo.
Per raccontare il capostipite del popolo di quell’immensa terra stepposa che è la Mongolia, un regista d’eccezione, il premio Oscar (Il prigioniero del Caucaso) Sergej Bodrov, di grande talento, capace di offrire un ritratto intimo e completo dell’eroe-guerriero, pur non mancando di metterci, all’interno della storia, qualche sdolcinatura eccessiva, sparsa qua e là, che il più delle volte appesantisce la narrazione.
Non affatto semplice, infatti, è l’intera vicenda di Temudshin, per il tentativo, ben risucito, di offrire una completa crescita di colui che, riunendo tutte le tribù mongole, costruì un grande impero, conquistando gran parte dell’Asia: di lui si racconta l’infanzia e l’adolescenza, fino all’ascesa al potere, dopo aver ricevuto un’investitura da soldato-monaco insieme; la consegna delle scimitarre, quasi sempre, incrociandosi formano una croce, come in una sorta di rituale sacro. E lui diverrà l’uomo simbolo del popolo che neio nostri libri di storia abbiamo sempre considerato distruttori e solo signori del male.
Il sanguinario Gengis Kahn, feroce signore dell’impero dei Mongoli, di cui la pellicola vuole raccontare oltre alle epiche gesta, anche la lotta per emergere in un contesto ostile, è colui che, alla fine, appare come un guerriero pacifista, ma non al modo de “la guerra giusta”. Gengis diverrà un uomo che, nonostante la crudezza e la crudeltà delle angherie, nei suoi confronti perpetrate, da uomini a lui vicicni, sarà, alla fine, capace di perdono.
Di suo Bodrov, ci mette tutta la spettacolarità e la potenzialità della macchina-cinema, realizzando praticamente un kolossal, mediante la descrizione di spazi sconfinati, le maestose e roboanti scene di massa emozionanti, realizzate all’interno di ricostruzioni storiche da brivido. Nonostante ciò, ci si chiede il motivo della scelta per cui realizzare molte scene di battaglia in digitale l’abbia contagiato.
Interessantissimo il finale del film, che oggi sembra presagire l’attuale situazione di un popolo che è alla ricerca della propria pacifica esistenza, quello tibetano, i cui templi nella storia reale si vogliono abbattere, ma che almeno nel film, alla fine, restano intatti.
Giancarlo Visitilli
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