Regia di Susanne Bier vedi scheda film
Mi capita qualche volta di tornare a rivedere un film a distanza di pochi giorni, e ciò puo' avvenire solo per due motivi: quando un film mi entusiasma al punto che sento il bisogno di rivivere le stesse emozioni, oppure quando (ed è questo il caso) qualcosa mi è parso mi sia sfuggito, qualcosa mi ha lasciato un pò "sospeso". Ma prima di proseguire devo fare un paio di premesse. Questo film aveva sulla carta due elementi per me convincenti già in partenza: la regista ed il marchio della distribuzione. I due ultimi film di Susanne Bier mi avevano impressionato piu' che favorevolmente e poi apprezzo moltissimo il lavoro che sta facendo la "Teodora Film", e soprattutto "come" lo sta facendo. A quest'ultimo proposito, mi ha fatto molto pacere cogliere un piccolo dettaglio...Appena si spengono le luci in sala, prima ancora dei titoli di testa appare sullo schermo per pochi secondi una scritta di cui non ricordo le parole esatte ma che recita piu' o meno così: "Questo film è distribuito da una Casa Indipendente". Bellissima questa fierezza nell'esibire la propria indipendenza da parte della "Teodora", che è evidentemente una di quelle aziende di cinema dove ancora si può lavorare bene, cioè nel rispetto dell'intelligenza di chi ama il Cinema. Lo testimonia la qualità dei film finora portati nelle sale da questa piccola distributrice. E giuro che per dire
queste parole di elogio non ho ricevuto soldi da quelli della Teodora! Susanne Bier ci ha piacevolmente abituato alla sua rappresentazione dei sentimenti, del dolore, degli affetti, del rimpianto. E anche qui, nonostante i pur legittimi dubbi derivanti dalla "trasferta" americana, ritroviamo con piacere intatto lo stile della brava cineasta danese. E fra l'altro, dopo una rapida ricerca su YouTube, ho scovato alcune sue interviste da cui la mia stima nei confronti della Bier è uscita rafforzata, avendo potuto coglierne le caratteristiche di una (bella) signora intelligente e colta, nonchè artista sensibile. Nelle primissime righe facevo cenno a delle mie vaghe perplessità che mi hanno indotto ad una seconda visione. Ecco, il punto è che questo è un film quasi cucito addosso a due grandi star hollywoodiane. E quando ci sono di mezzo dei mattatori, facile che scatti un sospetto, che poi riguarda ogni attore che offre clamorose performances. Il sospetto è, evidentemente, quello di "gigioneggiare", e in questo caso non riguarda certo la Berry che qui interpreta un ruolo doloroso ma tutto sommato piuttosto "trattenuto", ma bensì un immenso Benicio Del Toro che in questo film (come dire?)...giganteggia su tutto il resto. Vedete, io penso che ogni grande attore sia anche un concentrato di vanità, tutti i piu' grandi di Hollywood possiedono un ego smisurato che li porta a compiacersi fino all'esaltazione per le critiche positive e -va da sè- ad irritarsi (ma anche deprimersi) per quelle negative. E perchè dunque Del Toro dovrebbe fare eccezione? Quando lo osservi mentre "spadroneggia" lo schermo, o quando un primo piano prolungato sembra esaltarne in senso espressivo ogni muscolo del viso, allora pensi che i grandi performer sono come "posseduti", da che cosa non so dire, ma forse da una qualche specie di "Demonio dell'arte". E dunque il mio sospetto era che Benicio avesse ecceduto in questo compiacersi della propria bravura. Non che il mio dubbio abbia trovato una deriva certa, ma almeno ora sono del tutto convinto della assoluta bontà della sua performance. Il suo personaggio, pur assumendo alcuni aspetti tipici degli atteggiamenti di uno "junkie" in fase di difficile recupero, rivela sfumature, pensieri e piccoli gesti che lo rendono spaventosamente UMANO. Lo possiamo constatare soprattutto quando si trova a rapportarsi con la franchezza (tipicamente atroce) di due bambini. E con questi due bambini la sua psicologia funziona, probabilmente perchè anche lui, in fondo, ha dentro di sè la purezza di un bambino. Ci sono certi dialoghi fra lui e questi due ragazzini che mi hanno commosso, proprio per la terribile sincerità di questi ultimi, che nasce dallo sguardo diretto ed impietoso di chi ancora non conosce le sovrastrutture mentali tipiche di noi adulti. Per me non è stato facile vedere un film (l'ennesimo) che parla dell'elaborazione di un lutto (e chiedo scusa se mi metto in gioco personalmente), in quanto da pochi mesi io stesso ho perso una persona a me molto cara e dunque conosco questi abissi di dolore, so che (come tutti ti dicono) "la vita continua"...il problema sta nella capacità di reagire e, soprattutto, nel non farsi catturare dai fantasmi della negatività...Nel caso del film poi, il lutto offre all'amico di chi è scomparso l'opportunità (unica) di riscattare una vita intera. Bravissima la Bier nel raccontare con estrema delicatezza la ricostruzione di due vite, si vede benissimo che lei AMA questi due suoi personaggi, lo si vede da come li insegue con la camera a mano e da come li inquadra. E qui mi viene da riflettere su come, per contro, in altri film e con altri registi, capita talvolta di percepire la sensazione opposta (di distanza fra regista ed attori) come -tanto per non far nomi- nell'ultima opera di Shyamalan. A questo va aggiunto che la Bier ha dalla sua una sensibilità tutta femminile, che la porta, con adorabile insistenza, ad indugiare su minimi dettagli (un piede, un anello, una lacrima, una goccia di pioggia...) che contribuiscono tutti ad alimentare una "atmosfera" e un clima che sanno di contagiosa delicata malinconìa. Pur non trattandosi affatto di un film minimalista, chi non vede di buon occhio un cinema fatto in buona parte di sentimenti e di sguardi, probabilmente si annoierà. Perchè poi, oltre a non essere ovviamente un film d'azione, non è neppure che la vicenda preveda snodi clamorosi. E' un film lento, dai tempi dilatati, come dilatati sono i tempi di cui le nostre vite hanno (avrebbero?) bisogno. Ed è anche un film sui piccoli progressivi spostamenti del nostro cuore, quando impariamo a conoscere meno in superficie le persone. Un'altra annotazione: quando Hollywood si cimenta nell'ispirarsi al cinema indipendente (il Sundance per fortuna sta influenzando, anche se in modo per ora ridotto, il mercato) i risultati possono essere di segno diverso.... Se un film viene fatto senza passione escono prodotti irrilevanti come "Alla scoperta di Charlie", se invece ci si mette l'anima (come ha fatto la Bier) il risultato parla da solo. Anche il messaggio finale, quell "Accept the good" che sta scritto sul bigliettino, e che sembra una cosa banale, in realtà è la chiave che aiuta due vite segnate dal dolore a trovare nella speranza un punto comune di contatto. Dei due magnifici attori protagonisti non saprei che dire che non sia stato già detto. Preferirei soffermarmi su territori assai meno esplorati, come per esempio un paio di attori che rivestono qui due ruoli secondari. Alison Lohman nel ruolo di Kelly, la ragazza ex eroinomane che entra nella vita di Jerry-Del Toro, l'ho trovata deliziosa, un piccolo ruolo ma interpretato con grazia e sensibilità. E che dire di quella "sagoma" di John Carroll Lynch? Questo bravo attore mi sottopone ogni volta (e questo è un periodo in cui appare in diversi film) ad una specie di condanna: io nella mia mente l'ho focalizzato e catalogato irreversibilmente come "il serial killer incarcerato di Zodiac" e (non ci posso fare niente) lui per me resterà sempre e solo "mister Zodiac". "Chapeau" alla Bier anche per la scelta della colonna sonora, che comprende Frank Zappa e Captain Beefheart. E sui titoli di coda si può ascoltare uno dei brani piu' belli di tutta la storia del rock'n'roll: non vi dirò quale, dovete scoprirlo da soli andando al cinema.
Concludendo. Il problema era fondere uno sguardo americano con la sensibilità nord europea: missione compiuta.
Voto: 9
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