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Into the Wild. Nelle terre selvagge

Regia di Sean Penn vedi scheda film

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La recensione su Into the Wild. Nelle terre selvagge

di chinaski
8 stelle

 

Ci sono film che non restano rinchiusi nei margini dello schermo e magicamente ti entrano dentro, fino a colmarti. Ci sono film che diventano esperienza, nel momento stesso in cui il vedere e l’ascoltare si trasformano in sentire. Emozioni, vita, dolore, morte, paura, felicità.

Into the Wild è un viaggio di puro splendore. Nel quale un ragazzo spinge fino ai limiti estremi una sua scelta morale. La ricerca della solitudine assoluta per misurare il proprio bisogno degli altri. E’ questo il fine ultimo di tutte le avventure, gli incontri e le scelte di Chris McCandless (interpretato da un magnifico Emile Hirsch).

Un viaggio che trasforma la fisicità del movimento in una ricerca interiore, esistenziale e allo stesso tempo letteraria e filosofica. Sean Penn amalgama con grande maestria questi tre piani, riportandoli in una forma del racconto che li sappia racchiudere ed esprimere.

E allora a dare continuità al rapporto tra vita e scrittura ci pensano le parole in sovrimpressione di Chris, che riempiono lo schermo e si mescolano con le immagini, diventando un’unica materia, quella di cui poi è fatto il cinema. E gli autori e i libri amati da Chris: London, Tolstoj, Il dottor Zivago. Le riflessioni filosofiche (Thoreau) che scaturiscono dal rapporto dell’uomo con la natura, dal suo misurare i propri limiti, dalla sua ricerca della verità.

 

Dopo aver preso una laurea con il massimo dei voti e aver adempito ai suoi obblighi nei confronti di quello che la società e la famiglia si aspettavano da lui, Chris decide di mettersi sulla strada, rinunciando a tutti i suoi risparmi, per fare ogni giorno una nuova esperienza. E durante il suo viaggio, Chris, che si ribattezza Alexander Supertramp, farà alcuni incontri che daranno ancora di più le giuste coordinate alla sua ricerca, grazie alle possibilità che la vita offre di poter condividere tempo e momenti con altre persone, per avvicinarsi a quella consapevolezza di se stessi che il ragazzo deve ancora ottenere, perché il suo è anche un viaggio di formazione, di scoperta del proprio mondo interiore e dei suoi confini. Tra questi incontri particolarmente emozionante è quello con due hippy, un’occasione per Sean Penn di riportare alla luce alcune delle utopie degli anni ’60 e ’70, come le comuni (qui è presente quella di Slab City) e il concetto di famiglia allargata.

 

La divisione della storia narrata da Penn (tratta dal romanzo di Jon Krakauer) in capitoli che ripercorrono l’esistenza umana, dalla nascita alla conquista della saggezza, dà anche il senso di un’interpretazione del tema del viaggio come nuova vita, come se i due anni in cui Chris cammina in lungo e in largo per l’America fossero, per lui, come una rinascita, un nuovo percorso umano ed esistenziale, in cui le tappe fondamentali della vita si condensano in incontri e scoperte. La narrazione alterna le settimane che Chris passa in Alaska, la sua grande avventura, la sua prova più estrema e i periodi di tempo in cui è in giro per l’America. Si alternano quindi la voce dello stesso Chris e quella della sorella, indispensabile per aprire nuovi scenari sulla vita del ragazzo, sulle sue paure, sulla scoperta di quanto la sua famiglia fosse ipocrita e violenta. Perché è proprio la famiglia, simbolo della società e del suo funzionamento, ad essere il nucleo malato che partorisce la rivolta di Chris. 

 

Una rivolta estrema, senza compromessi, che trasforma questo film anche in un manifesto politico di assoluta negazione di alcuni dei principi fondanti delle società occidentali, quali la famiglia e il consumo. 

Attraverso la storia di Chris, Sean Penn apre uno squarcio profondo nella realtà codificata e perennemente uguale a se stessa nella quale ci ritroviamo a vivere. Mostra la natura, mostra l’uomo completamente immerso in essa. Ma la sua non è una visione retorica, è semplicemente l’esplorazione di altre possibilità, di altre approcci alla vita. La natura mostrata da Penn non è benevola. E più essa diventa selvaggia, lontana dalla civiltà, più si trasforma in un ambiente ostile all’uomo e alle sue necessità primarie. La caccia e l’alimentazione diventano problemi reali, concreti, quotidiani. Ma la natura è anche il luogo in cui lo spirito umano trova la possibilità di espandersi ed elevarsi, quasi in comunione mistica con gli elementi. Vivere qui ed ora, senza anestesie di alcun tipo, tecnologiche quanto sociali, vivere per scoprire l’essenza della vita stessa, la sua verità ultima e più profonda.

 

“La felicità non è reale se non è condivisa” scrive Chris sul suo quaderno. E questa sarà la sua illuminazione.

 

Sean Penn lavora in maniera profonda, accurata. Costruisce un film in cui non sono solo i grandi spazi offerti dai paesaggi naturali a riempire l’inquadratura ma anche i dettagli di fiori, piante, animali. Spazi cinematografici pulsanti, vivi, pieni di un’infinita bellezza, perché la natura diventa anche esperienza estetica, visiva. E poi un uso espressivo e poetico della colonna sonora, con le stupende canzoni di Eddie Vedder, i cui testi si misurano sempre con le immagini e con le parole del protagonista. Un modo per esprimere ancora concetti e idee, ma anche per creare emozioni e sensazioni.

 

Into the wild non è solo un film da vedere e rivedere e amare è più di ogni altra cosa un’esperienza da vivere. 

 

Un viaggio da compiere.

 

 

(ho scritto questa recensione nel 2008 e avevo ancora parecchia inegnuità nel mio cuore)

 

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