Regia di Sean Penn vedi scheda film
Nessuna delle precedenti prove registiche di Sean Penn mi aveva convinto del tutto: quindi nemmeno in questo caso, nonostante le recensioni positive, mi aspettavo un capolavoro. Siamo decisamente dalle parti del grado zero del mito americano, anzi con un’ulteriore scarnificazione dell’essenzialità di Easy rider (neanche una Harley Davidson, si procede a piedi o in autostop): la conquista della frontiera, l’on the road, l’uomo solo che si misura con la wilderness (vedere, per contrasto, l’europeo Senza tetto né legge, dove estraniarsi dalla società non significa perdersi in spazi sconfinati ma confrontarsi pur sempre con presenze umane). Però c’è qualcosa di patologico nel protagonista e nella sua scelta di fuggire dal consorzio civile, evitando radicalmente anche i contatti con le persone che gli vogliono bene e che potrebbero aiutarlo (non accetta né l’amore di Kristen Stewart, né la possibilità di una nuova famiglia offertagli prima da Catherine Keener e poi dal vecchio Hal Holbrook): sembra un caso estremo di misantropia, per quanto velata. Inoltre stona l’estetica hollywoodiana: la fotografia è troppo patinata, Emile Hirsch è troppo belloccio anche spettinato e bisunto. Quasi superfluo precisare che il migliore fra gli interpreti, per quel poco che si vede, è William Hurt nel solito ruolo anaffettivo.
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