Regia di Sean Penn vedi scheda film
Into the wild-biografia di uno stupido.
Into the wild, poema sublime di francescana purificazione, nonchè percorso di formazione sospeso tra il naturalismo di Jack London e la ricerca del nocciolo della vita di Kerouac, della strada come sublimazione dell’essere tutt’uno con il mondo attraverso la vena di asfalto che irrora di linfa il mito del viaggio. Alex Supertramp, lasciati i panni borghesi di Chris Mc Candless, si inoltra nelle terre selvagge alla ricerca della libertà. Un libro e una storia che sembrano nati apposta per la visione poetica e disincantata di Sean Penn regista di grande sensibilità, perfettamente a proprio agio nel narrare degli uomini, prima dei fatti. Successe già con lo splendido La promessa, con un Jack Nicholson inceppato in un loop mentale malefico, causato dalla ricerca spasmodica della verità, che aveva sotto gli occhi e che la natura beffarda del destino gli priva un attimo prima di ottemperare alla promessa del titolo. La verità uccide, soprattutto se non sai riconoscerla in tempo, se non dai il giusto nome alle cose, se vedi solo quello che vuoi vedere. La verità uccide perché è giusto che sia così forse, l’uomo è abituato a sottomettere la verità ai propri voleri, e la natura, quella che cerca spasmodicamente Alex come algido esempio di verità, l’immenso idealizzato e pregno di significati riportati da altri, è una natura che non si fa sottomettere. Il film di Penn è mirabile contributo alla poetica stoltezza dell’uomo di cui Alex Supertramp si fa postulato, che non riconosce le cose per quello che sono arrivando a interpretarle a proprio piacimento, così il viaggio verso la natura si trasforma da viaggio di formazione a fuga. Sarebbe stato troppo facile per un regista meno accorto trasformare il tutto in una cavalcata new age pregna di buoni sentimenti, una fiaba ecologista e retorica sui mali del mondo, Penn invece si ritrae amabilmente da un’interpretazione simile rimanendo con giochi di sublime equilibrio registico sulla lama della retorica, ondeggiando qui e là per farci vedere la verità, quella vera che filtra dalla storia. Alex Supertramp è profondamente stupido, una stupidità felice nella sua giovane e vitale protervia, nel coraggio che mette a disposizione di un’idea sacrificando ad essa tutto, nominando le cose che incontra del suo giudizio perentorio senza accorgersi che le cose stanno in maniera completamente diversa. La fuga dall’uomo che opera sistematicamente il protagonista è in realtà dalla sua incapacità ad entrare in empatia con chicchessia, il rifiuto delle cose materiali sono solo simboli del suo disagio ad accettare la vita per quella che è, la paura di prendersi responsabilità oltre a quella di sopravvivere, cosa nella quale peraltro fallirà. Come è simbolo di libertà l’Alaska, le terre selvagge semplicemente lette e idealizzate come egli ha idealizzato un suo personale modello di libertà che fa aderire ad una millantata assenza di regole, contrapposte alle regole della società che ritiene di aver scavalcato semplicemente distruggendone i simboli. Purtroppo l’errore mortale sta proprio qui, la libertà è reciproco rispetto delle regole, la natura ne ha altre rispetto a quelle della società dell’uomo, ne ha di rigidissime, regole che Alex disattende venendo sopraffatto. Penn lavora su tre fronti, quello della permanenza in Alaska, alternato con flashback al viaggio che l’ha condotto nelle terre selvagge e richiamando alla memoria di tanto in tanto le immagini dei genitori del protagonista, borghesi e sconvolti dalla francescana svolta del figlio. Completa il tutto la voce off della sorella di Alex, struggente, che spiega le ragioni di un sentimento così lancinante. Questo continuo contrapporsi luoghi e situazioni mette in risalto la personalità di Alex portandolo piano piano alla coincidenza delle evidenze che egli sistematicamente rifiuta di comprendere. L’umanità che incontra sul suo cammino è assolutamente positiva, è gente libera o disponibile ad esserlo con lui, (l’agricoltore, la famiglia di Hippies, i due svedesi nudisti, la signora nera nell’ostello per barboni…) fulminante a questo proposito l’incontro con il vecchio Hal Holbrook, splendido e commovente nonno “in pectore” che prospetta la possibilità di continuazione del proprio lavoro e della propria esperienza, vero motore dell’esistenza stessa. Alex molto spesso risponde con citazioni da libri e sembra non avere una visione delle cose che non sia quella riportata, una visione per quanto egli sia il protagonista della propria storia, che è sempre esterna a sé stesso. La scrittura riveste una grande importanza in questo film soprattutto perché è tratto dal libro a sua volta estrapolato dal diario di Chris McCandless; perché è dalla lettura di libri che Alex trova la forza di viaggiare e di sbagliare; le parole incise nel legno suonano come un lugubre epitaffio; tutto è delegato non al sentire ma al capire, le parole dei libri lo guidano verso la morte quando egli sbagliando a leggere ingerisce frutti velenosi, poco prima che un altro libro gli proponesse la soluzione della felicità. La scrittura gli fornisce l’ultimo barlume di vita nella considerazione finale: la felicità può essere tale solo se condivisa. Il succo del film e della sua vita è tutto lì. Merito di Sean Penn avercelo suggerito continuamente, sottopelle, lasciando tracce con i personaggi magnificamente delineati, senza abbandonarsi a didascalismi inutili Rifiutanto a priori la possibilità di realizzare un polpettone eco- romantico, o un mokumentary sulle bellezze dell’Alaska, realizza un film estremo nei sentimenti, profondamente drammatico e disilluso, in cui la natura rifà semplicemente sè stessa senza connotarla di significati extradiegetici. In questo senso eludendo qualsiasi significato letterario della “natura”, la mostra in modo assolutamente anti cinematografico, libera da qualsiasi interpretazione estetica, etica o moraleggiante esprime la natura in tutta la sua potenza. Into the wild - L’anarchia dello sguardo.
Nel film di Penn si possono riconoscere diversi stili di narrazione, che partono dalla scrittura stessa del film connotando i tempi in cui la storia si svolge: l’Alaska; i flashback che connotano il viaggio per gli Stati Uniti e gli incontri con gli altri personaggi del film, incontri oggettivi che segnano il percorso di (de)formazione del personaggio principale Alex e i flashback inerenti alla motivazione iniziale ovvero la rottura con i genitori e i falsi valori della vita borghese; la voce off della sorella che racconta e raccorda il tutto. A riprese ariose composte da campi lunghi e medi, motore classicheggiante del film, si contrappongono improvvise accelerazioni e ralenty, un montaggio più dinamico e dissolvenze che danno una spinta moderna all’impianto scenico. La messa in scena “moderna” riguarda l’ esposizione del sé alla ricerca di qualcosa di nuovo, di incredibile e irraggiungibile, l’interpretazione del mondo attraverso il cavilloso citazionismo di un primo della classe che il mondo ha imparato ad interpretarlo, appunto, anziché viverlo; la parte “classica” viene riservata all’esposizione delle relazioni con gli altri personaggi, la parte “relazionale” che identifica nell’altro una re-identificazione nel protagonista corrispondente ad un preciso capitolo della vita (dalla nascita passando per l’età della saggezza, fino alla morte). A questo si aggiunge una sostanziale differenza di sguardo tra regista e protagonista nella parte cruciale, quella relativa alla sopravvivenza in Alaska: Alex idealizza il luogo, disattende le regole rigide della natura che crede amica credendola in empatia con i suoi desideri mentre Penn la mostra senza didascalismi e forzature, una natura né buona né cattiva, natura come parte inscindibile della vita e soggetta a regole che non vanno disattese. C’è oltretutto un passaggio fulminante che incrina ulteriormente la regolarità dello sguardo, già di per sé frammentato: la scena della mela , dove dopo un breve monologo a camera fissa, ripresa amatoriale, Penn fa guardare Alex spudoratamente in macchina fregandosene altamente della coerenza narrativa, momento realmente spiazzante, unico, che aggiunge libertà espressiva ad un film che come varietà di linguaggio aderisce perfettamente allo spirito anarchico della storia che viene narrata. Ne esce un film demodé , profondamente umanista, visivamente straordinario, commovente per come ci si avvicini alle contraddizioni dell’essere umano.
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