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Into the Wild. Nelle terre selvagge

Regia di Sean Penn vedi scheda film

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La recensione su Into the Wild. Nelle terre selvagge

di scapigliato
8 stelle

“Into the Wild” ovvero “Datemi la verità”. Il film che mancava. Il film che racconterebbe la mia vita (e lo fa in un certo senso). Il film che ti apre il cuore. Il film che si ribella, si autodistrugge, si ama da solo nel rifiuto del compromesso. Il film che commuove senza l’uso del patetico, dell’enfatico e della retorica. Sean Penn, il miglior regista americano, secondo solo a Clint Eastwood, concede la visibilità autoriale ad una storia radicale, tipica americana, ma così lontana dall’America di oggi da non essere più ascoltata, percepita, seguita e compresa. Il grande director invece, sottoscrive la filosofia e la rabbia del giovane Chris McCandless, che agli inizi dei ’90 lasciò tutto, in barba alle convenzioni sociali, e visse da uomo libero. Senza compromesso. Io sono un ragazzo pratico. A chi mi chiedesse cosa farei per risolvere il problema del traffico risponderei “Usate la bici!”. In “Into the Wild” c’è tutta l’idea dei ’70, dallo spirito al linguaggio cinematografico. Emerson, Kerouac, Thoreau, London: nomi che si inseguono letterariamente tra le pagine del testo filmico impregnato di rocce, sabbia, polvere, acqua, neve, sole e bestie varie. Libertà, quella vera, non quella edulcorata di oggi che fa troppo spesso rima con comodità. Verità, quella che ha anche il sapore della sconfitta e del dolore, ma basta che non sia menzogna. Lo Stato, le Istituzioni, la Chiesa, la Famiglia, la Scuola, la Patria, escono tutte con le ossa rotte. Non ci sono partiti, né dogmi, né confessioni, né banche e nemmeno un briciolo di capitale. Nella verità radicale che cerca McCandless non c’è spazio per tutte queste menzogne. “Into the Wild” è un film urgente. Un film che oggi serve a distinguere coraggio dal quieto vivere. Distinguerli una volta per tutte. Molti credono che essere liberi voglia dire di potersi permettere la macchina di gran lusso, la vacanza esclusiva, in perfetto stile radical chic. In realtà bisognerebbe chiedersi se certi prodotti sono necessari. O se sono solo un’inutilà che però ci fa sentire sicuri, certi, a posto con noi stessi. Cos’è esistere? É possedere. Questo oggi ci viene insegnato da qualsiasi canale informativo. Guardate “Into the Wild” e vedrete che esistere è esattamente quello che vuole dire: esistere. Non un significato di più, non un significato di meno.
Attraverso l’episodicità kerouachiana, i topoi del viaggio, i luoghi e le persone che compongono il paesaggio umano, Sean Penn, e con lui Emile Hirsch, e con loro Christopher McCandless, ci porta attraverso l’America spirituale, quella che ha creato una controcultura, quella che vive per una strada che va ad ovest, e non in accezione anti-orientale. Ancora una volta è “la strada”. Ancora una volta è quella lingua di asfalto che è di tutti e di nessuno, che è ogni luogo e nessun luogo, è ancora lei a determinare la Verità: né le chiese, né i partiti, né le banche, né lo Stato. É la strada. É lì che trovi Dio. É lì che trovi l’uomo, a sua immagine e somiglianza. E benchè ogni tanto si sfiori la posa retorica, il film di Penn riesce ad annullare quell’intrusione, e scaglia contro il capitalismo e il consumismo di tutto il mondo, tutta la rabbia e la ribellione non solo del vero “pioniere”, mezzo hobo e mezzo rodie, Chris McCandless, ma anche la sua, dopo almeno 28 anni di onorato dissenso (da “Taps” in avanti). In più Penn trova in Emile Hirsch, il miglior hobo della nostra vita, il megafono giusto per urlare, amplificata, la sua rottura, la sua posizione e la sua rabbia giovane mai sopita. E la cosa più bella è che Hirsch ci crede! Lo crede così forte che le rapide del Colorado non gli interessano; che i soldi se li brucia; che all’amore non lo vuol fare. Nuova icona dell’uomo etico, Hirsch, ha il fisico giusto per sopportare un mutamento carnale quanto spirituale, e diventare l’amore proibito, adolescenziale, che tanto vorremmo. É l’uomo che va per la sua strada. É l’uomo che ama, ma se lo tiene per sè. É l’uomo che affronta, sfida e gioca con la Natura. É l’uomo junghiano, il ribelle, il singolo individuo che non molla, che va per la sua strada. É l’adolescente perpetuo. É l’uomo fatto non della polvere delle stelle, ma di quella della strada. L’amata strada. Che amiamo e odiamo, madre di gioie e dolori: madre della Verità. Non la verità posticcia, quell’impalcatura di nobili valori come il militarismo, la patria e la famiglia, da cui oggi arrivano gli orrori più atroci e mai condannati in nome di una menzogna che in molti hanno ancora il coraggio di chiamare Dio, ma bensì la Verità primitiva, nata con l’uomo e all’uomo connaturata, intrinseca, non appiccicata a posteriori da legislatori e confessori. Dio è là, su quella strada, non nel paramento orpellato. Emile Hirsch, che con “Into the Wild” appare al grande pubblico proprio quando scompare l’impavido Heath Ledger (mese più mese meno), ci fa sentire meno soli. E diventa un re che piange, là nel momento più alto del film: l’incontro nel deserto utahiano con Hal Halbrook: e il cuore vola, prima di inclinarsi contento.
“Into the Wild” restituisce il classicismo solido eastwoodiano, modificato dallo spessore moderno di Penn, autore radicale, scomodo e necessario, attraverso gli stilemi e i temi cari al mai dimenticato controcinema americano dei ’70: il cinema più bello del mondo. Abbiamo più di quello che ci serve. “Società”, dice una canzone del film firmata Eddie Vedder dei Pearl Jam, “sei una razza folle, spero non ti sentirai sola senza di me”. Il regista e l’attore, una relazione quasi simbiotica. Il primo dirige e fa sì che il racconto, antinarrativizzato, proceda vero; il secondo lo incarna. E come lo incarna. Hirsch merita tutto l’affetto e la stima di chi ne capisce di recitazione, e soprattutto di umanità ed etica. Con Penn si parla di neo-umanesimo. Diamogli il termine che vogliamo, ma non dimentichiamoci che il suo “marginalismo” (dico io), è radicato nell’etica più vera, quella vera umanità che ha fatto grande il pensiero dell’uomo libero. Oggi, tra ingranaggi di potere e aspirazioni plastificate di pura apparenza, muore l’uomo libero. Con lui muore il mondo. Ma non muoriranno i pensieri, le incazzature. Le rabbie resistono, e l’uomo sofferente vive in libertà e verità, come un Cristo. Lo stesso cristo che Hirsch interpreta alla perfezione nel suo martirio, nella sua personale e selvatica passione: la ricerca del cibo, la difesa dal freddo, la corsa sui treni, il locus horris della metropoli, la secca del deserto, lupi, orsi e alci da cacciare, rapide e fiumi in piena da attraversare. Su tutte queste fatiche, la più difficile è la riconciliazione con sé stesso. Nel vecchio Ron, ovvero l’ormai ottuagenario Hal Holbrook, Hirsch/McCandless non trova la riconciliazione con sé stesso e con l’altro, nè tantomeno con la famiglia. Quest’ultima resta il più grande covo di vipere e menzogne dell’epoca moderna, nutrice di mostri e di arrabbiati vari che seguono l’autodistruzione come un presagio. Il vecchio gli chiede di poterlo addottare, di poter essere suo nonno. Le lacrime anticipano le parole, ma Hirsch impietoso, dissente. Maschera tutto con un “poi dopo ne riparleremo”, ma non vuole risolvere il suo groviglio. La fuga lo attende. Nemmeno la bellissima Kristen Stewart riuscirà a trattenerlo nella civiltà, mancando pure un appuntamento di puro sesso giovane. L’asceta Hirsch non ci sta, la rifiuta: lui deve andare. Che questo nascondi un segreto onanismo è un’interpretazione che mi piace, perchè tutto porta nella direzione dell’uomo solo, che gode del sé nel momento in cui il sé si realizza solitario, contro tutto e tutti, dichiarando la sua vittoria e palesando la sconfitta del sistema.
Ma come la critica fa notare, Sean Penn non fa un film puramente elegiaco sulla ribellione radicale di McCandless, a rischio di fare una pellicola solo politica, ma va oltre e ne evidenzia con ferocia e cattiveria di immagini, tutti gli errori che tale radicale antagonismo sociale comportano. Come dice bene Raffaella Giancristofaro, prima Sean Penn esalta il ritorno francescano ad un vita persa, corrotta dal sistema capitalistico, “poi fa a pezzi l’apologia dell’intellettuale non integrato, della solitudine fine a se stessa, e rivela l’inutilità pratica dei classici e dei manuali di sopravvivenza davanti all’urgenza di saper conservare la carne di un preda”. É vero. Penn compie questa operazione. Ma davvero la pensa così? O così è stata la reale vicenda di Christopher McCandless, e altro non si poteva fare? Io credo comunque, che ben vengano questi errori. Io amo questi errori. Allora sia. L’intellettuale non integrato e la solitudine fine a se stessa, che io stesso condanno come rapporti sterili di incomunicabilità, devono esistere. Devono esserci. E perdere o vincere non importa. Non importa dove si arriva. Ciò che conta è andare. Lo diceva Kerouac, lo dice oggi Sean Penn con la storia beata di Chistopher McCandless, ovvero “Emile Hirsch che incontrò Hal Holbrook”.

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