Regia di Sean Penn vedi scheda film
Una parabola umana ed esistenziale sulla necessità di liberarsi dai condizionamenti che ci allontanano dalla nostra essenza, Into the wild è un film importante per vari motivi: innanzitutto segna la definitiva maturazione di una personalità che rischiava di rimanere imbrigliatà in un maledettismo fine a se stesso ed invece è riuscita, grazie ad un percorso cinematografico fortemente individuale e ricco di spunti psicanalitici, a metabolizzare i propri fantasmi e farne il punto di partenza per una consapevolezza pronta a mettersi in gioco con i grandi temi della contemporaneità americana e non (la nota trilogia Dio , patria e famiglia ma anche ambiente e palingenesi sociale), senza perdere di vista le esigenze di un privato che non è più disgiunto dalla realtà ma riesce ad interrogarla con la necessaria lucidità. L’uomo in rivolta lascia all’arte il compito di trovare il senso delle sue azioni attraverso la rappresentazione di un mondo che sembra ricalcarne le inquietudini e soprattutto le scelte: l’inadeguatezza da Mac Endless rispetto al proprio nucleo familiare ed in senso più vasto ad una società che rinnega il senso dell’umano, la voglia di fuga che si mischia ad uno spirito d’avventura tipicamente americano, il concetto di esperienza come strumento indispensabile di conoscenza e comprensione sono le tappe di un ascetismo senza sangue e di una liberazione che appartiene al ciclo naturale delle cose e si presenta, con l’immagine del protagonista riflesso nel cielo in perfetta sintonia con il respiro dell’anima mundi, sintesi magistrale di un opera che riesce ad unire il linguaggio delle immagini con quello della parola, come un eterno ritorno a cui non c’è mai fine. Il paesaggio geografico di una bellezza struggente ed insieme crudele rimanda continuamente alle tappe emotive di questa ri-nascita, scandita nel film dai capitoli di un libro immaginario ed insieme reale (il film ci ricorda la bellezza di autori dimenticati od oggetto di facili semplificazioni come Jack London, Walden, Tolstoj) le cui frasi trovano rispondenza nella forza delle immagini che Penn costruisce con l’ispirazione di un poeta e la concretezza della vità, riuscendo ad eliminare dal suo cinema certi tic autoriali (uso esasperato del rallentì, spleen screen e distorsioni temporali al limite del sopportabile) e di scrittura (con storie che avevano la tendenza ad avvolgersi su se stesse) che lo emenacipano dal clichè elitario a cui si era relegato. Al contrario Into the wild è un film che rompe il muro di silenzio di un regista che ha ha imparato la lezione della vita e la vuole condividere in maniera costruttiva, lasciando ad altri il culto della morte (anche se il finale potrebbe sconfessare quest’affermazione inducendo i giovanissimi ad una pericolosa rilettura) e preferendo la voglia di fare all’apatia dei discorsi che rimangono sulla carta. Allo Sturm und Drung del super uomo herzoghiano, capostipite di quell’umanesimo panteista che pervade il film, Penn affianca un tipo umano (a cui Emile Hirsh, in un interpretazione totale, regala la sua faccia da ragazzo della porta accanto) che sente con altrettanta intensità ma reagisce con una saggezza antica come il mondo che sta scoprendo. Penn ci invita a fare le cose in grande rifiutando i modelli di un autoemarginazione minimale e compiaciuta così come lo spontaneismo di chi vive alla giornata, proponendo una scelta radicale da non seguire in maniera letterale ma cogliendone attraverso il paradosso finale, l’urgenza dell’attuazione, prima che il velo dipinto distolga i nostri occhi dal vero senso della vita.
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