Regia di Sean Penn vedi scheda film
Un buon film per riflettere. Il protagonista, nella realtà come nel film, può esser anche visto come fastidioso, presuntuoso…va contro con gran probabilità alla morte, ma permette anche tante valutazioni positive. Il merito della resa di Penn è di non suggerire giudizi, lasciando aperte tutte le interpretazioni. Va apprezzata quanto c’è di critico: i mali psicologici, che possono essere devastanti, causati da genitori che non sono stati in grado di esserlo; il capitalismo, specie nella sua veste classica dei nostri decenni (lì si era nel ’92, l’anno d’oro per gli Usa che imponevano le proprie condizioni economiche a tantissimi paesi da loro distrutti, finita l’ultima barriera del comunismo), quella statunitense, con tutta la sua patina ributtante di ipocrisia e apparenza, sparsa attraverso i miti della carriera, della visibilità sociale legata al denaro... Oltre a ciò, va apprezzato ciò che c’è di costruttivo: la necessità della verità, innanzitutto, senza la quale si vive male; il contatto con la natura, come contesto indispensabile per sentirsi se stessi, cioè sentirsi esseri umani, e dunque degli esseri biologici, materiali, specialissimi però fra tutti gli esseri materiali. La fotografia qui merita un plauso. Come culmine di tutto ciò, il tema dell’esperienza è centrale: il personaggio scopre ciò che è nel divenire. Il divenire di un’esperienza continua, che include varie esperienze, intersecantisi, sfumantisi, insorgenti, tramontanti, nessuna delle quali è decisiva in sé, è ultimativa. La vita come viaggio avrà ricevuto anche tanti abbassamenti dovuti alla retorica (che lo stesso capitalismo ha sfruttato appieno per le pubblicità dei viaggi, ad esempio), ma è una delle cifre esistenziali più corrette. Una, non l’unica, come il film non mostra abbastanza. “Il senso della vita è fare esperienze”, dice il protagonista a un vecchio insultandolo nel frattempo, è una frase stupida, in sé, se limitata. Perché va integrata: non serve a nulla fare esperienze in sé; serve solo nella misura in cui serve a mantenersi più felici che triste, costantemente. Ed è assodato che per essere felici sia necessario conoscere in senso lato, ovvero fare esperienze umanamente significative, sia con le relazioni, sia con i libri, come il film mostra bene. Tutta l’esperienza 68ina del viaggio, del rifiuto di relazioni fossilizzanti, perché fisse e alla fine inevitabilmente opprimenti, è qui ben riportata: con i suoi limiti, ma anche con i suoi pregi, di autenticità, di calore umano. Il protagonista, egregiamente interpretato da Hirsch in una parte difficilissima, mostra bene questo apparente paradosso: la solitudine e il silenzio sono indispensabili per una vita felice, ma non possono bastare per essa, che richiede anche e soprattutto la condivisione con i nostri simili, per quanto selezionati questi siano. Di positivo c’è anche che il protagonista, Mc Candless (realmente esistito, ricalcando una parabola simile, quella vissuta da Everett Ruess negli anni ’30) non viene canonizzato: i suoi difetti si vedono. La presunzione nel sentirsi superiore a chi non fa esperienze apparentemente così evidenti come la sua, con un certo tasso di esibizionismo; la pesantezza delle citazioni letterarie, eccessive; l’assai poco credibile rinuncia all’attrattiva sessuale, che invece costituisce di norma il più forte richiamo alle pulsioni più originarie della persona che vuol essere sé stessa, felice al di là delle convenzioni. Ha possibilità di vivere attimi forse indimenticabili con una ragazza bellissima innamorata di lui, e peraltro sola, che di ragazzi ne incontra pochissimi, e che gli si offre: e la butta via. E’ una scelta poco credibile, proprio perché intrisa di un ascetismo che è proprio il contrario di ciò che professa chi, come lui, richiama sempre l’esigenza di vivere del momento, in modo spontaneo e intenso. Il tradimento di un atteggiamento nietzschiano che comunque per altri versi lui stesso persegue: filosoficamente parlando, il film fa riflettere molto su certo forme di naturalismo estremo, come quello vissuto dai cinici, professato da certi sofisti (Ippia, Antifonte), poi da Rousseau, Freud…
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