Regia di Carlo Mazzacurati vedi scheda film
Mazzacurati è indubbiamente uno dei pochi registi italiani capace di raccontare (e far vivere) attraverso la macchina da presa, il disagio profondo e radicato di un “paesaggio e delle figure che lo animano”, rendendo il tutto palpitante, e poeticamente realistico, persino leggero, oltre che attendibilmente e questa sua bella fatica ne è la conferma
Ottimo quadro d’insieme quello offerto da Carlo Mazzacurati con il suo “La giusta distanza” che salutiamo come una felicissima rinascita dopo i risultati un po’ appannati degli ultimi anni. Un ritratto sfaccettatamente poliedrico di un’altra delle tante desolate province di questo anonimo “profondo” nord pieno di incongruenze e di storture (anche ideologiche) che “evidenzia”, attraverso la rappresentazione di una galleria di riuscite caratterizzazioni, molte di quelle “umane debolezze”, che inquinano la realtà quotidiana di questa Italietta piena di contraddizioni e di incomunicabile diffidenza, così presuntuosamente ripiegata sulle proprie autarchiche convinzioni fortemente conservatrici, da aver perso del tutto la dimensione umana ed etica dei valori fondanti di una “civiltà” che possiamo considerare in fase di preoccupante decadimento civile e morale. Mazzacurati è indubbiamente uno dei pochi registi italiani che “sa” raccontare (e far vivere) attraverso la macchina da presa, il disagio profondo e radicato di un “paesaggio e delle figure che lo animano”, rendendo il tutto palpitante, e “poeticamente realistico”, persino “leggero”, oltre che attendibilmente problematico (nel senso che inserisce forti spunti di riflessione critica e di analisi oggettiva su una “condizione” e uno stato che meriterebbero una attenzione più precisa e puntuale di quella riservata da una stampa sempre più di regime che tende solamente ad esasperare le contraddizioni del “caso estremo” alimentando le paure). Possiamo quindi confermare che sotto questo profilo il film è riuscito in pieno nel suo intento perchè il quadro è esaustivo ed inquietante, nella sua liliale presunta normalizzazione quotidiana, e le annotazioni puntualmente “pungenti” e veritiere. Più discutibile e articolata invece risulta essere la valutazione sull’esito “complessivo” dell’andamento della storia, soprattutto considerando la svolta finale che tinge di giallo la conclusione del percorso, con un’impennata repentina e (im)prevedibile che sa molto di compromesso (dettata forse più da meri motivi di opportunismo “commerciale” che da una effettiva necessità espressiva), e alla quale probabilmente nemmeno Mazzacurati credeva poi più di tanto, vista la frettolosa concitazione con cui il tutto viene risolto in una decina di minuti o poco più, sufficienti però ad alterare l’equilibrio dell’opera in relazione a tutto quello che ci era stato mostrato prima e all’andamento pacato fatto di piccole osservazioni e di dettagli abbastanza sfumati. Più che una “morte” allora sarebbe forse stata sufficiente una “partenza” (che la sceneggiatura suggeriva per altro egregiamente), ma probabilmente si temeva così di essere troppo poco incisivi e coinvolgenti ( di fare insomma un’opera che poteva avere il difetto di essere considerata troppo “autoriale”), e di disperdere una parte del coinvolgimento empatico dello spettatore che sicuramente si è voluto invece ricercare e rendere più esplicito (e le tragedie si sa che sono elementi particolarmente congeniali per raggiungere questo traguardo). Un eccesso di prudenza forse, o anche una mancanza di coraggio (che difficilmente però il mercato ripagherà con la necessaria “generosità” - in termini di incassi al botteghino). Viene spontanea allora la riflessione che in ultima analisi, visto come stanno andando le cose, sarebbe stata indubbiamente preferibile la “coerenza” a quello che immagino doveva essere il disegno originale, e la conseguente minore attenzione alla “pagnotta”, cosa questa che avrebbe potuto compensare il possibile insuccesso di cassetta, con un più sostanziale apprezzamento di natura valutativa da parte di una più ristretta cerchia di “sostenitori”. Il prodotto risulta invece un poco ibrido, con un innesto “poliziesco” che, seppure il regista è in grado di “costruire” con ottima intuizione strategica per amplificare ulteriormente le valenze sociologhe del suo percorso e sottolineare le evidenti “allusioni comportamentali” a fatti e situazioni che “oscurano” la cronaca giudiziaria dei nostri giorni, acquisisce inevitabilmente il senso dell’appiccicaticcio programmato un po’ “furbetto” (per lo meno ne ingenera il sospetto). Indubbiamente quindi un film non completamente riuscito, ma in ogni caso godibile e accattivante (e di insolito equilibrio) per lo meno per i quattro terzi del suo percorso, perché l’inevitabile cambiamento di tono dovuto alla svolta noir, più che deludere, è un cedimento che fa cadere la tensione e smarrire l’interesse (è importante semmai ciò che espone, ma il meccanismo mistery è così scoperto e intuibile da risultare immediatamente scontato anche per lo spettatore meno accorto). Fatte queste necessarie premesse, possiamo cercare di addentrarci “dentro le viscere” di quell’immaginario paesino così realisticamente concreto, collocato alle foci del grande fiume (il Po) che risponde al nome di Concadalbero, dove è ambientata la rappresentazione, nella monotonia di giorni sempre uguali e senza stimoli, prendendo così “indiretto contatto” con i suoi abitanti “conformati” che l’imprevisto arrivo di una maestra supplente bella ed emancipata (l’elemento anomalo e disturbante), risveglia dal torpore incancrenito dall’abitudine e dalla noia, suscitando qualche scandalo e inaspettate passioni, molti desideri (inespressi o reali) e altrettante gelosie e intromissioni nel privato (persino frustrazioni) oltre a inevitabili atteggiamenti di deprecabile e ridicolo “gallismo” nostrano. Il nucleo portante è proprio questo “procedere episodico” “di là dal fiume e fra gli alberi”, ma il film rappresenta anche in qualche maniera un “percorso di formazione” (quello di Giovanni, diciottenne inquieto ed aspirante giornalista - “mestiere” al quale si riferisce la valenza citazionistica del titolo) che proprio “trasgredendo” a quel principio “fondante” di “mantenere la giusta distanza” e lasciandosi trascinare emotivamente proprio in prossimità dei fatti fino a farli diventare “personali”, riuscirà – seppure quando ormai è troppo tardi - a “rendere” giustizia e a restituire una dignità (cosi come gli era stato esplicitamente richiesto) che il preconcetto aveva dato scontatamente per inesistente al di là del giudizio legale. Un altro dei tanti meriti che dobbiamo riconoscere a quest’opera è poi quello della delicatezza di tocco nel procedere al racconto di un “amore” (im)possibile (segnato da differenti percezioni della passione e diviso e osteggiato da differenti formazioni culturali e da obbiettivi fortemente discrepanti e non compatibili, nonostante la forza del sentimento), che legherà Mara (la maestrina) a un giovane meccanico tunisino, Hussein, che in anni di onesto e rispettato lavoro si è guadagnato la stima di tutti, ma che alla resa dei conti, rimarrà sempre e comunque il “diverso” da cui difendersi e diffidare, un altro degli elementi alieni (come in qualche modo lo è anche Mara) da epurare ed espellere. Letto sotto quest’ottica, i toni lenti di questa appassionata ballata di provincia, potevano benissimo far presagire una virata verso quelli più cupi della tragedia, ma se davvero nelle intenzioni di regista e sceneggiatori questo doveva diventare il fulcro centrale del racconto, allora sarebbe stato necessario equilibrare maggiormente fra loro le due parti dando uno spazio di più vasto respiro proprio al “fattaccio” e alle sue conseguenze. In relazione a quanto evidenziato, sono tentato di immaginare che le “crepe” maggiori siano ravvisabili in una sceneggiatura non del tutto amalgamata ed omogenea (che avrebbe indubbiamente richiesto una più attenta “limatura” e un “collante” più persistente). Gli altri elementi invece sono perfettamente inseriti nel disegno complessivo e contribuiscono al positivo risultato, a partire dalla straordinaria fotografia di Luca Bigazzi che, in perfetta sintonia con la visione dell’autore, ci restituisce la meravigliosa suggestione di quei paesaggi di pianura indispensabili per definire con lucidità critica ed eleganza di sguardo, quel microcosmo provinciale indifferentemente amorfo, facendolo diventare “vivo e palpitante” oltre l’immaginario (sarebbe sufficiente la sequenza iniziale di “avvicinamento” per creare la “fascinazione” che finirà poi per avvolge tutta l’opera per fornire la “cifra” della qualità assoluta di questa “mediazio0ne”).Un discorso particolare merita però proprio la coraggiosa scelta degli interpreti (i nomi conosciuti sono relegati in parti di fianco o in piccoli “camei” come quelli del bravissimi e puntuali Fabrizio Bentivoglio e Giuseppe Battiston) che sono, per i tre ruoli principali, assoluti esordienti (o quasi) e comunque facce totalmente sconosciute e inedite per i frequentatori del grande schermo per lo meno per un utilizzo così di primo piano. Un trio di attori che si conferma non solo all’altezza del forte impegno assunto (e pienamente meritevoli della fiducia accordata loro), ma anche un elemento prioritario di “validità espressiva” grazie alla “innovativa”, inconsueta e non usurata “freschezza” delle facce che aiuta moltissimo a raggiungere una originale definizione identificativa anche “fisica”, con i personaggio loro affidati. Sono, nell’ordine, l’ottimo Giovanni Capovillari (il diciottenne aspirante giornalista), Ahmed Haflene (impagabile nel rendere plausibile il disagio e la caparbietà di una integrazione ormai quasi del tutto “definita” e nell’evidenziare in contemporanea, le differenti pulsioni formative che rendono comunque difficili anche i rapporti più spontanei e profondi) e soprattutto Valentina Lodovini (una graditissima sorpresa alla quale auguro una felicissima e positiva carriera, così fisica e appropriata, da restituire perfettamente tutte le variegate sfaccettature di questa trentenne emancipata e aperta, in rotta di collisione con il più chiuso e conformista modo di una provincia, che assume il ruolo catartico della cartina di tornasole in grado di far affiorare le discrepanze incongruenti fra pulsioni e “facciata”. Un nome il suo, sul quale si dovrebbe decisamente puntare (credo che i risultati potrebbero essere di gran lunga più entusiasmanti di quelli delle più decantate e sponsorizzate Cristina Capotondi e Laura Chiatti che vanno per la maggiore). Un ultimo elogio (ma non nella scala dei meriti), all’insolito accompagnamento musicale fra folk, jazz ed avanguardia, dei Tin Hat, veramente suggestivo ed appropriato.
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