Regia di Sidney Lumet vedi scheda film
Si respira un’aria tangibile di fallimento nell’ultimo film di Lumet, un fallimento esistenziale ancor prima che economico, benché sia quest’ultimo il motore del racconto, la volontà predatoria di due fratelli insoddisfatti mossi dall’illusione che i soldi e le possibilità che essi danno riappianino gli sconforti e le cocenti delusioni della vita. Incapaci di far fronte alle esigenze proprie e delle rispettive mogli, i due fratelli ordiscono un piano dalla semplice esecuzione: un colpo in una gioielleria. E il progetto risulta facilitato dal fatto che si tratta del negozio di famiglia, piccolo pertugio di periferia gestito dai genitori con una vecchia commessa.
Ma tira aria di grecale sull’eccessiva facilità dell’impresa, e la faciloneria dell’esecuzione fa virare il colpo in tragedia, il complice occasionale spara e uccide la madre dei due fratelli mentre il padre cerca cieca vendetta e la famiglia del rapinatore chiede un congruo risarcimento. Tutto si accanisce sui due criminali improvvisati stringendo a cappio il circolo vizioso delle parentele e dei legami familiari trasformando un presunto noir in tragedia greca.
Per tutti i sogni sono scomparsi nei meandri dei giorni passati, nell’illusione di una soluzione felice, nell’utopia di un appagamento. Perché entrambi i fratelli amano la stessa donna, moglie del maggiore, uccidono la madre, sono inseguiti dal padre e si affrontano ad armi spianate, inseguono la morte cercando di eluderla con fantasie sessuali e lisergiche, cercano di sopravvivere prima di soccombere, come suggerisce il titolo originale: “Prima che il diavolo sappia che sei morto”. Nella versione italiana il titolo sottolinea la beffarda ironia di un comandamento virato nel suo opposto, nel ribaltamento del naturale ordine dei rapporti in cui l’affetto si trasforma in rivalità e odio, contraccambiati con sincerità. Tutto ruota attorno alla famiglia, coacervo di tensioni irrisolte ed asfissianti (il figlio prediletto, il fratello incapace, la moglie fedifraga, il genitore vendicatore), si riconduce ad un microcosmo di conoscenze e rapporti che splodono nella brama, con l’incapacità progettuale di vedere al di là dei confini abituali e delle poche conoscenze abitudinarie, le strettoie familiari come unica soluzione alle ristrettezze economiche.
Non c’è scampo, dalla tragedia o dalla famiglia, dagli errori rimossi nell’apatia sino alla deflagrazione, fino a quando qualcuno non viene a chiedere il conto. E la violenza diventa l’ultima illusione di riscatto, l’affermazione derisoria di una presa di posizione, di una presenza nel mondo, mentre è soltanto la conferma del fallimento e il sancimento della sconfitta.
Il regista segue i personaggi, concentrandosi sugli attori e varia la recitazione dal naturalismo alla caricatura, mentre imprime alle scene una freddezza straniante. Le scenografie diventano fondali di inquietante geometria o sordida confusione, ambientazioni realistiche lasciano subito spazio ad astrazioni cromatiche. La predestinazione della tragedia classica viene sostituita da una narrazione sincopata che alterna passato e presente - con una certa rozzezza nella segnalazione dei passaggi -riproponendo, variate nell’inquadratura, le medesime scene per evidenziare i percorsi dei singoli personaggi. Non cambia il punto di vista narrativo ma solo l’accento sul protagonista di volta in volta prescelto, facendo dello sguardo della macchina da presa quasi un corifeo ideale estraneo alla vicenda che scruta insetti terreni inetti a capire la trappola del fato, di un dio indegno che loro stessi incarnano.
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