Regia di Shekhar Kapur vedi scheda film
Una pelle bianchissima. I colori dei vestiti. Gli ampi spazi delle sale. I gesti codificati, l’esercizio del potere, una libertà così grande da dover rinunciare a qualsiasi altra cosa. Splendida e altera, Cate Blanchett, nei panni della Regina Elisabetta. Pronta a sacrificare la vita (intesa come intreccio di emozioni e passioni) per la sua nazione, pronta a rinunciare all’amore per il mantenimento del regno. Capace di emergere dalla propria gelida gabbia per mettersi a capo degli uomini e guidarli in battaglia. Una donna e una regina che sembrano lottare tra di loro, tra il bisogno di un contatto umano, di un semplice bacio e la necessità di continuare a comandare, di mantenere quella superficie immaginaria eppure così tangibile che chi detiene il potere deve porre tra sé e gli altri. La regina può essere vista, ma nessuno può toccarla. Come una divinità.
Discorsi, volti, comportamenti di un mondo assurdo, eterno palcoscenico, dove in pochi decidevano del destino di molti attraverso guerre e leggi, imponendo religioni e credi. Eppure Elizabeth fu tollerante con gli inglesi cattolici, non negò loro la libertà religiosa, bastava che fossero dei buoni sudditi, obbedienti al suo regno. E il rapporto tra religione e fondamentalismo (in questo caso il cattolicesimo spagnolo, rappresentato dalla figura di Filippo II) è uno dei temi del film, con voluti riferimenti al nostro tempo, possibilità, quindi, di ricostruire il passato per guardare ai conflitti del presente.
In Elizabeth: the golden age la monarchia si muove negli spazi chiusi dei propri palazzi e castelli, mentre tra i corridoi fremono congiure e si incendiano le passioni di amori proibiti. In una continua lotta tra le esigenze del cuore e quelle di una nazione, Elizabeth è costretta a mettere sempre in discussione sentimenti e ragione, obblighi del potere e immense libertà.
Un film che cerca in ogni modo di trasformasi in un ritratto magniloquente, epico e solenne di un’intera epoca ma che merita la visione solo quando si restringe in un primo piano del volto della Blanchett. Quando la cornice del quadro ritaglia quel volto, seguendone le linee, diventa possibile cercare di capire ciò che si muove nel cuore di una regina (e di una donna), nei suoi desideri, nella sua (nascosta) umanità.
Ma appena il quadro si allarga di nuovo la ricostruzione di questa epoca crolla, negli stereotipi di figure di corte, avventurieri e uomini di chiesa, con un’incessante musica corale che vorrebbe innalzare azioni e gesta verso un’epicità dimenticata e inaccessibile, mentre rimane solo uno studiato espediente emotivo, pronto a sottolineare, quando giunge il momento, la sequenza per la quale emozionarsi o rimanere a bocca aperta.
E quel vuoto che Elizabeth si porta dentro per essere stata costretta a diventare un’icona, un’immagine di se stessa, rimarrà tale. Né l’amore, né un uomo, né tantomeno un figlio riusciranno a riempirlo. E nell'eterna grazia che sembra proteggerla, il tempo riuscirà ad entrare, infrangendo quella superficie divisoria propria delle divinità, portando rughe e rubandosi la giovinezza, ma soprattutto ricordandoci che non esistono dei a questo mondo, ma solo uomini o donne che vi si travestono e a cui il destino ha regalato il dono più ambito di tutti, quello del potere assoluto.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta