Regia di Silvio Soldini vedi scheda film
Dopo Pane e tulipani ecco Pane e cipolla. Non c’è più di mezzo Agata, ma c’è sempre una tempesta, stavolta drammatica. È una materia incandescente quella in ballo. Già affrontare il discorso di una crisi coniugale è rischioso, mettici poi il tema, delicatissimo, della perdita del lavoro. Che quindi prende sempre più le sembianze di un qualcosa di necessario, indispensabile per assicurare un presente ed un futuro sereno ed assicurato. Lavoro, produco, faccio quindi esisto, conto, vivo. E quando manca, inizia la discesa nel purgatorio della vita, anticamera di un inferno gelido e infame. Doloroso ed amaro. Ma mentre la donna cerca di fare necessità virtù (non realizzando completamente il proposito) – come dicevano le nonne, “il bisogno aguzza l’ingegno” – e si ributta nell’agone più modesto del mondo del lavoro, l’uomo si abbandona a se stesso, non avendo ottenuto il successo sperato e non riuscendo a gratificare la propria esperienza. Il ménage si fa teso, ciò che prima sembrava scontato diventa difficile – i soldi non fanno la felicità ma tutelano le esigenze del vivere quotidiano. E quando tutto sembra sul punto di cadere precipitosamente, c’è un po’ di speranza all’orizzonte nella ricerca della bellezza delle piccole cose. Quel che Silvio Soldini crea ha un che di portentoso: oltre a manifestare l’eclettismo del suo guardare la società – è tutta un’altra storia rispetto alle atmosfere colorate e frizzanti di Pane e tulipani ed Agata e la tempesta, costruisce un aspro dramma sulla precarietà esistenziale e professionale con un tocco al contempo garbato e duro.
Se nel suo opus più famoso c’era una donna che fuggiva un po’ per caso e un po’ per desiderio, alla ricerca delle passioni perdute ed appiattite dalla routine familiare, che si trova un lavoro che l’appaga, qui è tutto meno lieve, più profondamente faticoso e complesso. È un film tostissimo, che affronta senza indugi un tema di complessa portata, eppure non grava sullo spettatore, non ha una visione pesante: i meriti? Vanno ascritti a molti elementi. Va detto che sembra di vedere mille storie quotidiane assemblate in un unico ed emblematico racconto: asciutto e figlio del reale, veritiero nella narrazione robusta e nello stile arido e determinato, denso come una nuvola che si muove nel cielo bigio e lì sul punto di sprigionare le gocce abbondanti di una pioggia smarrita e mesta. La sceneggiatura di Soldini, Doriana Leondeff, Francesco Piccolo e Federica Pontremoli conferisce un tono ancora più concreto ai dialoghi secchi ed essenziali, coinvolgendo i personaggi negli orizzonti assorti di una Genova un po’ persa e un po’ sbadata, dal volto non definibile specificatamente, a metà tra oscurità luminosa e leggerezza subdola. E le musiche di Giovanni Venosta regalano un’aurea inquieta ma speranzosa. Così com’è il film, inquieto e speranzoso, un felicissimo ritorno al Soldini più drammatico, una sorta di appendice a L’aria serena dell’ovest. Che può contare sulle mirabolanti interpretazioni di due attori mai così bravi. Se il sublime Antonio Albanese è umile ed abbattuto nella sua disperata e malinconica depressione, Margherita Buy è meravigliosa nell’impersonare una donna che immola i propri sogni all’altare della famiglia, dignitosa e solerte nel rimboccarsi le maniche, per niente nevrotica come spesso la si accusa. Menzione alla figlia, una nuova e anarchica Alba Rohwracher. Non si dimentica lo struggente finale, segno di una speranza non prossima, ma neanche lontana.
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