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Planet Terror

Regia di Robert Rodriguez vedi scheda film

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La recensione su Planet Terror

di scapigliato
8 stelle

C’era una volta l’exploitation, e c’è ancora. Sia lode a Dio. Il segmento di Rodriguez, molto sottovalutato come regista, è l’antitesi di quello tarantiniano. Là, tra pupe, bulli e macchine da corsa vinceva la teoria sul genere, comprese contaminazioni, citazioni, innovazioni (vedi i lunghi dialoghi alla Tarantino, il montaggio, l’estetica, l’iconografia), qui invece, tra messicanacci, sceriffi e zombi vince la pratica del genere, se così si vuol dire, per cui i segni visivi e l’immaginario suggerito da essi sono funzionali al veicolo di una idea, di un perché, di un messaggio, una provocazione, che altrimenti il Cinema non saprebbe mediare. Intendiamoci, tutti e due gli “arti” mozzati di questo corpo cinematografico chiamato “Grindhouse” sono ugualmente affascinanti, efficaci, precisi, impeccabili, da scuola, da antologia, da museo di arte contemporanea. Hanno però la piacevole differenza di guardarsi a vicenda, quasi specularmente (tant’è che il segmento di Tarantino doveva venire dopo a quello di Rodriguez, stando al rispetto filologico del progetto). Con Rodriguez prende così “corpo” la riflessione sul “corpo”, come sulla “carne”, alla maniera di “Non aprite Quella Porta 3”, dove la “carne”, emblema di un Paese, diventa la sua nemesi, il suo paradigma orribile, perturbante e grottesco. Qui, tra un Bruce Willis che fa il verso ai suoi muscle-heroes paramilitari, e un Tarantino che squama da ogni parte, c’è un Freddy Rodriguez che porta in scena il messicano di frontiera, quello non integrato, non registrato, non rieducato, e c’è una Rose McGowan che mutilata ad una gamba vede sparire la sua ambizione da cabarettista fino a quando non si scoprirà eroina grazie ad una protesi armata. Tra uomini-bubboni, sangue a fiotti, a fiumi, a mari!, e a tutto il compendio di raccapriccianti quanto divertenti intuizioni splatter e gore, tra intestini e budella mischiati alla carne vera e alle salsicce, c’è tutta una compiaciuta sovversione dell’immaginario americano borghese, tutto pulito e tutto funzionale, dove l’amata “carne” dei rancheros di oggi come di ieri diventa la croce di una Nazione, o meglio un elemento, tra il negativo e il positivo, a cui l’America è legata ambiguamente. Ma tralasciando le riflessioni profonde, che ci sono perché Rodriguez non è il primo che passa per strada, e che coinvolgerebbero anche la poetica degli ultimi, degli abbruttiti e dei perdenti peckinpahniani (se non è incodo scomodare il più grande di tutti, lo zio Sam), tralasciando questo e privandolo al film, avremo ugualmente un grande prodotto impeccabile. Perché l’horror, e “Planet Terror” come “Death Proof” possono essere letti come metahorror, viene rappresentanto, attraverso un’iconografia intrisa di immaginario mai sopito, e forte di un’estetica che i prodotti horror dozzinali di oggi non concepiscono, come il genere che insieme al western (di cui i due film sono debitori) può tradurre in immagini i motivi e i moduli necessari affinchè l’uomo riveda e traduca fuori da sé quello che è. La storia infatti è bizzarra quanto deve. La forte dose di erotismo castrato, di testosterone southern, di villica tensione animale, generano pruriti selvaggi sedati solo dalla violenza. E questa, of course, è la principale musa deflagratrice del gioco al massacro di un Paese in guerra con sé stesso e la sua cultura. Tutto volge all’esasperazione: dagli snodi narrativi, dai personaggi (Josh Brolin e Tarantino su tutti), alle battute, agli ambienti, all’iconografia che richiamano, ecc... Un’esasperazione che oggi sembrerebbe essere una delle vie estetiche preferite dalle nuove leve autoriali americane e non, in contrapposizione con il film di cassetta che, populista, dice solo quello che si vuol sentire dire senza manifestarlo in una radicale presa estetica sincera. Per la serie “la forma è il contenuto”, “Planet Terror” è la forma di una sovversiva idea di Cinema arrabbiato, lontano dall’ombelicocentrismo autoriale europeo, e molto vicino alla perfezione divina del Cinema come arte comunicativa e provocatrice. Da non dimenticare la presenza di Michael Sparks, e la presenza di una scena davvero forte e imprevedibile che coinvolge un bambino...

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