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Io non sono qui

Regia di Todd Haynes vedi scheda film

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La recensione su Io non sono qui

di (spopola) 1726792
8 stelle

un film tecnicamente sorprendente, innovativo e affascinante, seducente e inusuale, che nessun amante di cinema dovrebbe lasciarsi sfuggire che conferma come Haynes sia uno dei pochi nomi di punta da tenere in evidenza nel sempre più desolato panorama generale del cinema d’autore prodotto dall’occidente.

Per me, “I’m not there” è stata una inaspettata, travolgente emozione. Confesso che sono entrato in sala con molta titubanza, non essendo io un Dylaniano doc (il mio rapporto con l’artista è stato solo di carattere “musicale”, nel senso che mi sono sempre limitato ad ascoltare, apprezzare e fare “mie” – metaforicamente, si intende!!! - le molte creazioni della sua genialità che hanno toccato il mio cuore, ma senza aver mai nutrito alcun interesse oggettivo per conoscere o approfondire altri aspetti della sua vita, tanto meno quelli legati al suo privato, ed ho persino un ricordo sbiaditissimo e non del tutto positivo del suo “Renaldo e Clara” visto in anni lontanissimi e in no so quale versione delle tante circolanti). Conoscendo così poco del suo percorso esistenziale e tenendo conto delle modalità di rappresentazione scelte da Haynes, temevo infatti di non raccapezzarmici molto nel labirintico percorso a più strati costruito dal regista e immaginavo di conseguenza di avere pochissime chances per apprezzare davvero l’opera (l’indifferenza, o peggio la noia, sono in genere terribili compagne e cattive consigliere e possono “abbattere” i migliori propositi di “resistenza attiva” soprattutto quando c’è della prevenzione aprioristica in chi “osserva”). Ma già dai formidabili titoli di testa, le mie remore sono cadute, perché mi sono reso subito conto che il film era così denso e particolare, prezioso nelle immagini, personalissimo nella costruzione di queste storie intorno a sei personaggi alla “ricerca della ricomposizione del mito”, così coinvolgente nella sua struttura quasi onirica fatta di ellissi e di ritorni, da potere essere “goduto” ed apprezzato pienamente anche da un ignorante come me che non aveva sufficienti elementi (o adeguata preparazione) per coprire gli inevitabili “buchi”, condizione che sarebbe stata ovviamente indispensabile per ricostruire interamente il mosaico “incompiuto” del racconto secondo la abituale logica della quasi totalità delle biografie convenzionali propinateci sullo schermo. La mia modalità di visione della pellicola, è stata allora quella, se non di dimenticare, certamente di non “priorizzare” il fatto che si parlava di Dylan, per lasciarmi trasportare interamente e senza opporre alcuna “resistenza”, dal libero flusso di ciò che veniva rappresentato sullo schermo, dalle parole e dalla musica. Mi sono trovato così progressivamente immerso in un mondo fantastico, creativo e “astratto” solo casualmente “imparentato” con ciò che è e rappresenta colui che ne rimane l’ispiratore e l’anima. Un “delirio” visivo insomma, quasi un sogno (o un incubo) cubista shakerato senza soluzione di continuità dentro un enorme e immaginifico caleidoscopio che con il suo girare vorticoso, componeva e scomponeva a piacimento i tasselli del puzzle colorato e straordinario costruito da un talento certamente eccezionale, per fornire prospettive diversificate a volte spiazzanti, altre un po’ criptiche o surreali, ma sempre inedite e non pedisseque. Un procedimento decisamente insolito che è riuscito a mettere in movimento emozionale tutte le percezioni sensoriali del mio corpo, e a mantenerle attive per l’intera durata della proiezione. Scusate se rischio di sembrare eccessivo nel “decantare” le lodi di questa esperienza (per me simile quasi a un trip allucinogeno) ma è proprio così che ho vissuto la proiezione, pur comprendendo che al di là della sua meravigliosa creatività, il film non è certo privo di qualche rallentamento (forse anche un tantino intriso di “freddo intellettualismo”), tanto da ipotizzare che una analisi più attenta ed obbiettiva dell’insieme, potrebbe persino costringermi ad ammettere che probabilmente non tutto è della stessa grana e che qualche “smagliatura” di raccordo, qualche “lungaggine eccessiva” che appesantisce l’insieme, poteva essere evitata e avrebbe sicuramente giovato all’economia generale della pellicola. Ma in un’opera “creativa” quel che conta a mio avviso è il risultato finale, ciò che ti provoca dentro e ti trasmette, i ricordi che suscita (qui molteplici anche per i riferimenti citazionistici di modelli e “culture” differenti ma tutte molto vicine alla mia anima e particolarmente in sintonia con la mia sensibilità), i moti dell’inconscio, e allora visto che questa volta è accaduto il “miracolo” della vibrazione, penso che potrà essere, se non giustificata, almeno perdonata qualche iperbole di troppo, perché in ogni caso si tratta di un’opera “inedita” e “avventurosa”, così inusuale e composita, da meritare una attenzione e una considerazione decisamente superiori alla media, per le sue innovative peculiarità (penso che purtroppo invece, considerata la forma, non potrà ambire ad ottenere quel dilagante successo di pubblico che le competerebbe, ma qui la colpa dovrà essere ricercata nella indisponibilità a rischiare - nella miopia - del fruitore finale al quale dovrebbe essere destinata, e non certamente attribuita all’autore o a sue possibili “carenze strutturali”, perché lui ha fatto il possibile per renderla “a suo modo” attraente, originale e “appassionata”). Pur non essendo stato presente, e mancandomi il confronto con gli altri fondamentali contributi artistici in concorso, penso di poter affermare comunque che il film ha in ogni caso meritato i riconoscimenti veneziani, sia per la genialità del percorso registico che ha così ben definito i tormenti e le evoluzioni di un artista fra ferite fisiche (l’incidente in moto) e metaforiche (quelle dell’anima), impennate improvvise e poetiche riflessioni, che per la stupefacente, straordinaria, oserei dire camaleontica prova della Blanchett, davvero un "mostro di bravura". Un film insomma che conferma Haynes fra le personalità di indubbio spicco, uno dei pochi nomi di punta da tenere in evidenza nel sempre più desolato panorama generale, per l’insolita acutezza del suo sguardo, il suo rapporto “ispirato”, quasi privilegiato con ciò che è musica, la sua capacità di “rendere visibili” i suoni mantenendo intatto il senso e la “sostanza” delle parole e di restituire l’essenza ultima di ciò che rappresenta, qualità queste che erano già in forte evidenza nel wellessiano “Velvet Goldmine” (i riferimenti “costruttivi” con “Quarto potere” da molti sottolineato in quell’occasione era non solo evidente, ma assolutamente ricercato e voluto). Con le ellissi spazio-temporali, le proiezioni frammentate, il sapiente alternarsi del bianco e nero e del colore, la poeticità mai asfittica o lambiccata dei dialoghi, la potenza suggestiva delle musiche che impreziosiscono la colonna sonora di “I’m not there", l’invenzione immaginifica all’interno del fotogramma, Haynes va ancora più avanti e ci fornisce un nuovo, inesplorato, rischiosissimo metodo di approccio (qualcosa che va molto oltre la sperimentazione frazionata operata in una analoga prospettiva, da Solondz con “Palindromi”) che rende davvero inusuale questo innamorato tributo tutt’altro che elegiaco alla “musa” ispiratrice (Dylan ha visto giusto autorizzando con entusiasmo l’impresa) che non mancherà a sua volta – ne sono certo – di essere pienamente soddisfatta del risultato in totale affinità simbiotica. “Immagini” che raccontano la musica, e canzoni che “creano” le visioni, insomma con una “disorganicità” discontinua e disordinata che è molto simile agli anomali e incontrollati flussi della coscienza, il tutto tenuto a bada e reso perfettamente congruo e assimilabile, da un regista che “vive il suo tempo” e riesce perfettamente a rappresentarlo, dimostra di “conosce” con esattezzza metronomica il cinema e le sue radici, e di essere in grado di celebrarlo senza timori reverenziali, reinventandolo e rigenerandolo. Potremmo dire allora (non sono il primo a farlo) che questo è il suo personale “8 e ½” (Fellini mi sembra qui che sia un riferimento spesso evidente non solo per l’ inserimento in colonna sonora di un brano composto da Rota per il “Casanova”, ma anche perché in un piccolo flash incidentale, seppure in un contesto diverso, viene fatta anche un citazione “precisa e puntuale” riprendendola proprio da quel capolavoro lontano e irraggiungibile che è appunto 8 e 1/2: la Blanchett che fluttua nel cielo come un aquilone ormeggiato a terra da una fune che la regge alla caviglia). Senza Dylan (o al di là di ciò che rappresenta) io ho vissuto (e apprezzato) il film come “sei storie”in apparenza indipendenti e a incastro, ma unite dallo stesso invisibile cordone ombelicale, sei piccole schegge di vetro disperse e impazzite, le facce di un dado “sbriciolato” che alla fine la “calamita” geniale dell’inventore, riesce ad “attrarre” e ricomporre, per mostrarci finalmente (subito prima dei titoli di coda che scorrono veloci, suscitando una volta tanto ancora nuove emozioni, così che vorremmo non finissero mai, accompagnati come sono dalle struggenti note di "Like a Rolling Stone") “l’assente”, colui “che non è là”, ma ha pregnato profondamente l’insieme con la sua essenza profonda, proprio attraverso la sua “ricercata latitanza”, rendono chiaro e perfettamente decifrabile il “disegno”. Mi sono accorto infatti che “nonostante tutto” alla fine ero riuscito a saperne molto di più sulla sofferenza della “creazione artistica” in rapporto all’esistenza e al proprio privato, ma anche – singolarmente – sullo stesso Dylan che mi è diventato improvvisamente più conosciuto e familiare. Ottima la fotografia, da urlo la colona sonora (ha per altro l’insolito pregio di non essere mai invadente o prevaricante, e di risultare per questo sempre appropriata, “necessaria” e indispensabile per definire al meglio il momento che rappresenta e sottolinea), intensa e "passionale la volutamente differenziata resa interpretativa degli attori (fra i quali spicca come già sopra evidenziato, la formidabile prova della Blanchett). Ma tutti gli altri interpreti chiamati a restituire le “diverse facce della medaglia” (e non solo) sono efficaci e “preziosi” a cominciare dal piccolo Marcus Carl Franklin, tanto che è difficile per me una volta evidenziate queste due eccellenze, fare una graduatoria di merito per gli altri (ma non mi sembra giusto dimenticare di sottolineare anche l’intensa prova di Charlotte Gainzburg, con una menzione speciale per Gere, appropriato e dolente, quasi “attonito” interprete del frammento più elegiaco e astrattamente poetico che conclude in maniera esemplare il percorso). Che dire di più? Davvero: un film tecnicamente sorprendente, innovativo e affascinante, seducente e inusuale, che nessun amante di cinema, Dylaniano o Dylanista, che sia (secondo la classificazione di Gervasini,) dovrebbe lasciarsi sfuggire. Accorrete in massa allora, vi prego, ascoltate l’appello e il consiglio: per me ne vale davvero la pena!!!!!!!!!

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