Regia di Nikita Mikhalkov vedi scheda film
Figlio di una poetessa e dello scrittore che compose i versi dell’inno nazionale russo, Nikita Mikhalkov rappresenta quell’élite culturale che affonda le sue radici nella Russia pre–perestroika e che ha raccontato i mutamenti della nazione attraverso l’esistenzialismo dei suoi personaggi (Il sole ingannatore, Il barbiere di Siberia). Con questo film, sorprendente remake di La parola ai giurati (1957, Sidney Lumet), Michalkov sposta l’azione a Mosca, dove un gruppo di dodici giurati si riunisce per decidere della sorte di un ragazzino ceceno imputato di aver ucciso il patrigno, un ufficiale russo. Nel film la crisi di identità che sconvolge il cittadino della Mosca odierna, i grandi sconvolgimenti economici e sociali sotto Putin, la mutazione antropologica della classe dirigente, le tensioni tra l’impero e le sue colonie (la Cecenia) diventano storie narrate in prima persona da ogni giurato. Siamo costretti a seguire l’avventura della parola che, dopo essere fluita, va a comporre un volto, un corpo, la carne e il sangue del racconto. Lo strazio e la follia dell’umano dostoevskijano, alcune leggere pennellate alla Chagall, l’infinita capacità introspettiva della letteratura zarista: sebbene sia il remake di un caposaldo della cinematografia Usa, 12 offre allo spettatore la sua anima russa, aliena e irriducibile a ogni omogeneità. Eppure il film si apre al mondo e la storia dell’imputato ceceno che aspetta una condanna già scritta diventa improvvisamente la storia dei pregiudizi di casa nostra, ricorda il romeno, l’albanese, l’immigrato clandestino. In questo doppio, incessante movimento - dalla paura del singolo alla paranoia sociale - sta la grandezza di questo film che mette al centro di sé stesso la necessità etica di una giustizia in terra. E la dolorosa consapevolezza della sua assenza. Infine, qualche colpo di scena da istrione navigato, un lieto fine forse troppo sornione e una danza liberatoria, per scaldarsi nel gelido inverno moscovita.
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