Regia di Nikita Mikhalkov vedi scheda film
Semplicemente dodici buoni motivi per andare al cinema: fra i quali il regista-attore, il resto del cast, il rifacimento di uno straordinario film di Lumet del ’57, il racconto di un fatto del passato che racconta il presente, perché trattasi di grande cinema. Debitamente russo e pre-perestroiko.
Nikita Mikhalkov, dà la parola ai giurati di oggi, siano essi russi o ceceni. L’unica parola che emrge forte è: odio.
Volendo dare una lettura abbastanza utopistica, Mikhalkov immagina che lui stesso, nella parte del pater russo, riscatti la vita di un giovanissimo ceceno, ingiustamente accusato di aver ucciso il padre adottivo, un ex militare dell'esercito russo. Le prove sembrano schiaccianti, e i 12 giurati sono convinti di poter raggiunere un verdetto di colpevolezza molto in fretta. Uno di loro, però, decide che il caso merita almeno un minimo di discussione, e vota “non colpevole”. Quello che sembrava un pro forma diventa così una lunghissima discussione sul ragazzo ceceno, ma anche e soprattutto il racconto della Russia di oggi e di come la guerra che ha distrutto l'Unione Sovietica sia ancora ben presente nelle vite dei russi.
Però, qui non accade quello che solo recentemente abbiamo apprezzato anche con l’altro russo, Sokurov in Alexandra: se qui tutto è dal vivo e reale, in Mikhalkov c’è una sorta di desiderio ‘che ciò si avveri’. Ma noi sappiamo che la realtà è assolutamente differente , rispetto a quella del film. Tra russi e ceceni c’è un unico confine, ma interiore ad entrambi: l’odio.
I dodici giurati, che vengono quasi privati di aria, nella claustrofobica palestra, dovranno, comunque, formulare un verdetto nei confronti del ragazzo ceceno. E se dal voto di un solo giurato, comincerà un’indagine senza fine, quel che viene violentemente fuori è la posizione difensiva della condanna. L’impossibilità quasi di giudicare, che pone l’essere umano in situazioni in cui è difficile superare il pregiudizio, o quel che nel miglior modo si chiama razzismo. E’ un film adatto anche alla situazione politica italiana, tutta impronte e polizie, col desiderio di far pulizie di ogni sorta. Perciò l’opera di Mikhalkov è importante: è capace di parlare della Russia e della Cecenia, ma anche del popolo italiano e di chi lo governa, passando anche per quei caproni che si fanno governare. Mikhalkov conosce l’anarchia, quella di chi è capace di farsi giustizia da sé e secondo i suoi parametri. I Russi nei confronti dei Ceceni, gli Israeliani nei confronti dei Palestinesi, e così via.
Il Lumet di Mikhalkov, allora, si carica di tutta la lezione della cultura russa, da Tarkovskij a Sokurov, rendendo la poesia una sorta di coscienza e l’unica fonte di verità possibile, mediante la quale è possibile una forma di giustizia. Si comprende così l’uccellino imprigionato dalla parole dei giurati e dai quattro sovrastanti muri della palestra. Intorno al suo simbolismo sarebbe utile riflettere su chi consente a lui la libertà di volare e cinguettare. Cosa impedisce alle corde vocali di quel giurato a pronunciare la parola Russia.
Nonostante il film sia girato in una palestra, il ritmo rimane sempre sostenuto, grazie ai movimenti circolari che rendono sempre più misteriose le figure dei giurati, per lo più ripresi di spalle, ma anche perché c’è un continuo alternarsi del dolore al riso, della speranza alla rinuncia, della verità all’ipocrisia.
Come in una matrioska, la verità affiora si, ma sempre meno visibile e tangibile. Così come oggi concretamente è nel reale.
Giancarlo Visitilli
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