Regia di Vincenzo Marra vedi scheda film
Nella pattuglia italiana invitata al Festival di Venezia del 2007, ricordo che L’ora di punta fu il più colpito dalle baionette dei critici e dagli archi dalle lance appuntite del pubblico. Linciato a destra e a manca, fu difeso solo da Alberto Crespi de l’Unità, il più competente giornalista di cinema che scrive su quotidiani. Con tutta la stima, quella volta, credo, sbagliò. L’ora di punta è un film sbagliato. È sbagliata proprio l’esegesi del contesto. I rimandi all’attualità si sprecano, tra scalate finanziarie e furbetti del quartierino, ma non ha la dimensione dell’istant movie o il realismo di una cronaca romanzata. Né tantomeno ha il respiro di un noir borghese e metropolitano sul trinomio sesso-soldi-successo. È semplicemente un fotoromanzo ombrato e cupo sul demone del danaro che si impossessa dell’uomo qualunque bramoso di ottenere la gloria, magari non palese, la facoltà di gestire il dietro le quinte del potere. È da lodare, d’altro canto, il tentativo del competente Marra di portare sullo schermo una storia non convenzionale in cui non ci fanno bella figura né i salotti borghesi dell’alta finanza politica (ma non è una novità), né la Guardia di Finanza. Ed è curioso che si dimostri una così disperata rassegnazione. Peccato che il film non trasudi di quella disperazione necessaria, non avvolga il ritratto del piccolo uomo Filippo di un’aria cupamente melodrammatica. Michele Lastella non ne è l’interprete adeguato, e Fanny Ardant infila una delle prove peggiori della sua carriera. Freddo con ambizioni di oggettività, distante ma con aspirazione di essere coinvolgente, duro senza essere cattivo. Occasione sciupata. Provaci ancora, Marra.
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