Regia di Ken Loach vedi scheda film
I diseredati e i poveracci, i cassaintegrati e gli alcolizzati, i profughi in cerca di lavoro, gli zingari, gli immigrati clandestini in realtà non esistono. Sono un’invenzione di Ken Loach e del suo cinema necessario, importante, che “vuole dire qualcosa”. Le categorie sopra citate, nella realtà sono solo dei “cosplayer” fanatici del regista della sfiga cosmica, che si vestono, si atteggiano e si rovinano la vita solo per assomigliare ai personaggi dei suoi film. Se il mondo è libero, sono libero di pensarla così, in contrapposizione all’odiosa abitudine del regista di estrarre un bussolotto con una sfiga nuova, puntare il dito e farci un film. Questa volta tocca ai lavoratori delle agenzie di reclutamento, dello sfruttamento dei quali sono vittime e del mondo che gira intorno a questi loschi figuri di reclutatori. Storia di una Cenerentola che marcisce fino a diventare strega cattiva, che da vittima di un licenziamento ingiusto da un’agenzia di reclutamento, si inventa un lavoro trovando occupazione agli immigrati, attraversando il confine della legalità a piè pari ed esondando nel caporalato senza remore. In Ken Loach esiste la profonda consapevolezza di essere necessario, e questo è il suo difetto maggiore contando su uno zoccolo duro di estimatori che lo sosterranno sempre: gli indignati. Quelli che “lo sapevo io”. Quelli che “te lo dicevo”. Altri ancora “meno male che c’è lui che denunzia”. Non se ne può più. IL film si regge tutto sulla trasformazione da borgatara di una zinnuta e procace bionda in donna in carriera motorizzata ben decisa a risolvere il proprio status di sotto proletaria, con figlio, marito alcolizzato assente, genitori ostili, in un luogo depresso dell’Inghilterra (personaggio alla Ken Loach) nonostante l’economia inglese si sia da tempo ripresa, dai tempi di Ken Loach, appunto. Finiti gli sfigati anglosassoni, il massiccio flusso migratorio da zone ad alta pressione di miseria nella nazione sovrana, fornisce materiale al buon Loach per l’ennesimo polpettone. Così assistiamo alla parabola negativa di una seppur bravissima Kierston Wareing, meritevole della coppa volpi a Venezia se non fosse stato per l’exploit di Cate Blanchett in versione menestrello adenoideo, che discende le viscere del proletariato fino a strapparne il cuore e cibarsene. Il film ricalca come nella tradizione Loachiana la realtà truce che si è scelto di descrivere, appesantendola di personaggi sovrascritti e pregni di quella retorica populista che serve al regista per convogliare le emozioni degli spettatori verso il TEMA, il significato importante che è il motore vero della pellicola. Interpretazione che fagocita il film, la spietata Angie che si fa i soldi sulla pelle dei poveracci mentre cerca di essere una buona madre e una amante il più occasionale possibile è una figura molto forte, cruda, la sua prorompente morbida femminilità gioca con i contrasti della durezza del viso, il fatiscente mondo della periferia degradata e da un comparto umano di sesso maschile spietatamente non attraente. Stona invece il buonismo con il quale il regista descrive gli sfruttati dalla perfida Angie, mostrando una partecipata e intellettualmente disonesta presa di posizione che serve sostanzialmente da sfondo alla protagonista, allo scopo di farne risaltare al massimo le caratteristiche negative. In una scelta stilistica che mira se non al verismo almeno al più verosimile possibile, la scena del rapimento del bambino e conseguente minaccia da parte degli immigrati truffati dalla bella e tumida biondina, è talmente inverosimile da scadere nel ridicolo involontario. L’indecisione se fare o no sul serio mina la forza di questo film, che se fosse stato più asciutto e meno permeato di didascalismi retorici (la scena del rapimento appunto, la visita nello scantinato alla famiglia iraniana) e così programmatico nel voler a tutti i costi connotare il tutto con l’impronta dell’accusa perdendo di vista la narrazione, cosa che nei film di Loach è fondamentale, sarebbe stato veramente un pugno nello stomaco. Ci si deve accontentare invece solo dell’ultima inquadratura, azzeccatissima, dell’ultimo sguardo della bella interprete che da solo salva e chiude seccamente la storia finalmente senza inutili orpelli: in questo mondo libero non c’è più speranza.
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