Regia di Ken Loach vedi scheda film
Proviamo a sognare: domani nell’aula del parlamento italiano un maxi schermo e tutti i parlamentari che vedono attentamente il film di Loach. Dopo, senza alcun dibattito (come nei cineforum seriosi), l’approvazione della finanziaria. Vedremmo come il cinema può dire e servire a molto di più, rispetto alle tante discussioni e altrettanti Vaffanculo Day.
Ken Loach, come pochi nel mondo della settima arte, mostra di voler dire ancora molto sulla sua odiatamata Inghilterra, rimanendo arrancato alle storie degli ultimi, di quelli che ogni giorno devono sbattersi con i servizi sociali, con i padroni e con quanti hanno in mano le redini della vita della gente precaria.
In un mondo che libero non lo è affatto, si consuma la vita di Angie, impiegata in un ufficio di collocamento per extracomunitari. Lei avrebbe voluto far di meglio, ma scegliendo di “non darla” ad un suo superiore, si ritrova a sopravvivere come ogni precario, per di più con un figlio che le viene mantenuto dai genitori. Ostinata, sceglie ancora una volta di mettersi in società con la sua coinquilina e aprire un’azienda di reclutamento per il lavoro temporaneo di immigrati. Inizia in nero, sognando di poter ottenere un ufficio suo e dei sostegni, ma ben presto si rende conto delle difficili condizioni dei lavoratori. Mancati pagamenti e ritardi la condurranno quasi a perdere la sua umanità, e da vittima sarà la carnefice in un mondo che si adegua alla mancanza di libertà.
Un anno fa Loach, con il bellissimo Il vento che accarezza l'erba, vinceva la Palma d'Oro a Cannes, ma questo non gli impedisce di essere libero rispetto alle grandi holdings hollywoodiane e scegliendo di entrare nella vita della gente che in ogni parte del mondo non ce la fa più a campare. Qui, come in altri film precedenti, i personaggi abbandonano la possibilità di una vita onesta, scegliendo la facile strada del lavoro sporco, perché non vi è alcun’altra possibilità. Sarà per questo che Angie non la si ama mai, perché è troppo simile a noi che, pur stipendiati-precari, non le si volterebbero contro, dal momento che agisce per il suo bene e per quello dei suoi cari, compresi i tanti extracomunitari che lavorano senza stipendio per troppo tempo. E’ questo il mondo. O meglio, la libertà nel mondo, ormai, si confonde con quest’anarchica sopravvivenza, giustificata dai discorsi dei nostri governanti (“bisogna abbandonare l’idea del posto fisso, abituarsi a vivere (?) svolgendo più lavori”).
Ecco perché la City di Loach assomiglia a Bari, a Milano, a Roma, ma anche all’ultimo paesino in cui vive la nonnina con trecento euro mensili di pensione, e dove le mafie di diversa provenienza, il caporalato si contendono immigrati clandestini e regolari sottopagati e costretti a convivere con la precarietà della loro pochezza. Ma Loach non punta neanche sulla solita retorica della convivenza più o meno travagliata fra differenti etnie, salta a piè pari i pregiudizi razziali e si concentra sulle ingiustizie del lavoro e la sofferenza di vite appese ad un filo. Aggiunge qualcosa in più rispetto ai suoi film precedenti, come Bread and roses. In questo di pane ce n’è ben poco, di rose nessuna; non si tratta di un cinema politico, ma di un cinema che fa politica.
Giancarlo Visitilli
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