Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film
Piccole scene di vita in una cittadina della Francia meridionale: un anziano operaio maghrebino, licenziato dal cantiere navale dove ha lavorato tutta la vita, vorrebbe reinventarsi ristoratore riadattando un barcone in disuso. Film chiassoso, sanguigno, allegramente etnico, ma bisognoso di una robusta potatura in cabina di montaggio e meno sciolto di La schivata. All’inizio sembra voler raccontare un uomo in crisi di fronte alla vecchiaia incipiente; poi lo sguardo si allarga alle due famiglie di lui, quella ufficiale e quella ufficiosa, fra le quali i rapporti sono tesi ma che lui ama allo stesso modo. Man mano il protagonista, pur mantenendo la propria centralità narrativa, tende a scomparire dalla scena (complice anche un aspetto fin troppo dimesso, quasi amorfo, per quello che dovrebbe essere un pater familias rispettato da tutti); viceversa acquistano spessore prima la figliastra, con la sua parlantina e il suo spirito d’iniziativa, poi la nuora, che grida tutta la rabbia e l’umiliazione di una donna tradita e silenziosamente esclusa dalla comunità di cui credeva di far parte. Insomma, prima di arrivare a un finale tragicamente beffardo ci sono troppe cose che danno l’impressione di essere state accatastate alla rinfusa. Ci si può anche vedere una parabola sull’impossibilità di una vera integrazione, ma tutto sommato non mi sembra l’aspetto che più interessa: le scene in cui i nostri si scontrano con la burocrazia pubblica e privata sarebbero andate benissimo anche se i nostri fossero stati poveri diavoli autoctoni (anzi, in ogni caso è poco verosimile che i notabili al completo accettino l’invito all’inaugurazione di un nuovo locale gestito da perfetti sconosciuti).
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