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Cous cous

Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film

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La recensione su Cous cous

di ROTOTOM
8 stelle

La graine et le mulet, in originale, quello che ha causato una mezza sollevazione popolare a Venezia 2007 quando non è stato premiato come miglior film a vantaggio dell’amico di Marco Muller, Ang Lee e il suo paginatissimo “Lust-caution”. Film opposto, questo vincitore morale con l’aura da secondo arrivato a fare da traino per tutte le sale d’essai, quasi un miracolo a sentirne parlare, aspettative montate a neve nel desiderio di assistere ad uno spettacolo magnificente.
Storia di una famiglia di arabi immigrati in Francia, integrata quanto basta, multietnica nella composizione di nonni e nipoti, figli e generi, mariti e mogli, tutti riuniti intorno al desco domenicale della matriarca autrice del più buon cous cous al pesce che memoria d’uomo ricordi. Slimane, ex marito, ha perso il lavoro in cantiere navale e decide insieme alla figlia della sua compagna di aprire un ristorante su una barca in disuso, contando sul piatto principe della sua ex moglie: il cous cous al muggine. Che nessuno fa. Abdellatif Kechiche per tutto il primo tempo con una camera a mano, chiude in inquadrature strettissime i visi dei personaggi nel loro quotidiano interloquire. Messe di corpi e di gesti normali, più normali del normale, di bocche che ciancicano cous cous, anime variopinte che si scontrano e si confrontano, e vasini per pipì e bambini, lavoro e pannolini, stipendi e politica, amore e tradimenti si fondono in un unico, ininterrotto tediosissimo fiume di parole a volte di sorprendente inutilità. Volti colti nella spontaneità delle espressioni, in primi piani dermatologici, bocche idiomi denti lingue nasi brufoli esposti a onorare il vero che si nobilita nella finzione; schermi ingombri di tette pance culi sovrabbondanti. Quotidiano che riassume la società, se ne parla, filtra e si dice. Si mostra uno spaccato di verità vera, si stabiliscono le gerarchie famigliari, si delineano i personaggi, i caratteri, i pregi e i difetti. Iperverismo post realista, impianto di una messa in scena teatrale in cui i dialoghi si sostituiscono alle immagini a raccontare immagini. Nessuna concessione allo spazio se non per una finestra aperta sul fiume che potrebbe essere tutto o nulla. Parole parole parole, studiate nei minimi dettagli, vomitate come se fosse vero e invece frutto di studiatissimi e cerebrali intenti comunicativi, obiettivi, ricerca di una strana via di mezzo tra ciò che è e ciò che sembra. Stremati, si attende la fine primo tempo, per un po’ di silenzio sperando che in effetti nel secondo tempo qualcosa accada. Qualcosa accade, in effetti. Si parla un po’ meno, un po’ meglio. Le immagini si sostituiscono piano piano alle parole, Slimane viene definito un “riciclato” da una elegantemente gelida funzionaria di una banca in un dialogo finalmente secco, stridente, efficace. Finchè la barca va, facciam da mangiare. Il progetto va, letteralmente, in porto. E il film decolla nel momento in cui entra fisicamente nell’inquadratura il magnetismo di Hafsia Herzi/Rym, bellissima e imperfetta figliastra del protagonista, vero motore del film, donna di languide morbide forme e sguardo fisso sulla parte più profonda dell’anima. Una folgorazione. Il lungo rosario di personaggi si sgrana man mano che il film si svela, ognuno giustificando con le azioni le lunghe elucubrazioni iniziali, i dialoghi si rarefanno, una venatura di giallo colora l’intera vicenda mentre i corpi prendono il sopravvento sulle parole, la musica copre le tensioni nascoste e i dissidi si placano. Qualcuno scompare, qualcuno si ravvede, qualcuno muore. Il sogno sopravvive al suo sognatore, soprattutto. Mentre tutta la sensualità di Rym erompe in un lunghissimo estenuante ballo che riassume la volontà di andare avanti, di unità di una cultura in minoranza contrapposta a una maggioritaria che la giudica e la soppesa e la teme. La danza stordisce e circuisce, ammalia distrae per un attimo sospeso nel tempo la sensazione di disastro imminente che incombe. E si partecipa, si parteggia, si soffre. Ci si emoziona. Grande film. Teatro, si diceva. Il riferimento a Aspettando Godot di Beckett è palese nell’ultima parte del film, in cui tutti i personaggi attendono che il protagonista principale, l’artefice della pace tra le famiglie e la chiave del loro successo si sveli, arrivi e si palesi. Kechiche fa un film costruito sull’attesa e sull’immedesimazione, sul montare della suspance che riesce a tenere viva fino alla fine. Il suo sguardo è quello di colui che ha capito cosa piace, cosa piace vedere e sentire, un po’ ruffiano ma con un’idea di cinema ben precisa e potente. Cinema intinto nel sugo popolare come ficcano le dita nel cous cous i suoi personaggi. Forse se fosse stato un po’ più sfoltito nei primi interminabili 100 minuti, sarebbe stato un grandissimo film visto che la parte più bella e emozionante è proprio quando le parole finiscono e nella lunga scena del ballo la commedia umana si nutre solo di inquadrature e sguardi, musica e danza del ventre, movimento e colori, dolore e morte, amore, storia che finisce nell’unico finale possibile: in silenzio finalmente, in campo lungo, con un uomo che realizza il suo sogno di vita. Cinema in poche parole. Ecco, in poche parole.

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