Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film
Sono moltissime le scene straordinarie che esaltano la grandezza del risultato, prima fra tutte la lunghissima sequenza del pranzo domenicale con tutti intorno a un tavolo a gustare il cous cous e la macchina rigorosamente a mano che si sofferma e sobbalza sui volti e le voci dei commensali che formando un’affascinante ragnatela sonora.
Per chi, come me aveva già avuto modo di apprezzare la raffinata arte di questo regista franco-tunisino innamorato del teatro e di Marivaux (“Tutta colpa di Voltaire” e soprattutto “La schivata”), “Le graine et le mulet”, mancato Leone d’oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, più che una sorpresa è stata una gradita conferma (come al solito di gran lunga preferibile la pertinenza “poetica” del titolo originale, rispetto all’ammiccante “cous-cous” scelto per l’edizione italiana, che per altro non è stato molto gradito nemmeno dal regista: speriamo almeno che questa concessione “al commerciale” aiuti la pellicola ad avere una visibilità meno di nicchia e un risultato in termini di presenze in sala, pari alla sua importanza). Indubbiamente Kechiche è uno dei talenti più innovativi e personali della cinematografia contemporanea, un emergente che ha davvero molte cose da dire e sa raccontarle magnificamente (cosa questa ancora più rara e inconsueta). La sua cifra stilistica, che solo un occhio distratto e disattento può scambiare per improvvisazione, è quella dell’apparente spontaneità, con quel “fluire” delle immagini (rigoroso e costante l’utilizzo della cinepresa a mano) e delle situazioni, quasi naïve, nella rappresentazione del gran varietà della vita con i suoi equivoci, i suoi drammi, i contrattempi e i colpi di scena, che fanno parte del vissuto quotidiano nel quale ciascun spettatore può trovare la sua personale “coincidenza” interpretativa, ma è al contrario una “sapiente” e laboriosa “messa in scena” molto meditata, dove niente è lasciato al caso, e non potrebbe essere altrimenti: è la lunga esperienza teatrale adattata alle esigenze dello schermo che da i suoi frutti, e non c’è davvero alcuna concessione all’imprevisto in questo calcolato mosaico di personaggi che si intrecciano fra loro. Tutto è studiato a tavolino, meticolosamente preparato e calibrato, frutto di un competente lavoro introspettivo, sia per i dialoghi (preponderanti e fluviali, ma indispensabili “cartine di tornasole” che mettono a nudo anime e condizioni, e per questo “centellinati” con una precisione quasi maniacale, senza “sbavature” o scadimenti nell’ovvio) che per quanto riguarda la costruzione delle storie con i loro interpreti (e i risultati che riesce ad ottenere da questi “non attori” è davvero sorprendente: li fa essere più “veri” del “vero”, li fa compenetrare così profondamente nel ruolo che devono rappresentare, fino a farli diventare essi stessi un tutt’uno indissolubile con il personaggio assegnato). Kechiche è abituato ai “tempi lunghi” e si prende quindi tutto lo spazio necessario per descrivere, in immagini e a parole, il quotidiano vivere di questa grande famiglia allargata (originariamente l’incedere “allentato” che lentamente ci fa immergere in quella dimensione privilegiata capace di farci percepire anche gli odori ed i sapori di ciò che ci viene raccontato, era ancor più dilatato, con una durata iniziale di quasi un’ora superiore alle già cospicue due ore e mezzo della versione definitiva poi arrivata sugli schermi: chissà se ci sarà mai offerto, magari in dvd, il piacere di gustare il piatto anche in quella sua versione lunga e dettagliata!!!) fra figli e figliocci, differenti provenienze etniche e religiose, ex mogli e “concubine”, integrazioni e disuguaglianze, precarietà e dissidi, amici e “referenti”, padri indomiti e madri “compiacenti”: una autentica “commedia umana” che racconta la complessità e le contraddizioni del presente di una comunità di immigrati di seconda generazione e delle problematiche “sociali” e “personali” che ne scaturiscono (e qui quello che davvero sembra fare la differenza, più che la provenienza, è semmai proprio la classe di appartenenza). Si può intravedere un universo già conosciuto e frequentato assiduamente, fra Loach e Guédiguain, tanto per intenderci (e sono solo due dei tanti nomi che potrebbero essere individuati come “scuola” di riferimento di un movimento di appartenenza “ideologica"), ma è lo sguardo ad essere così personale e innovativo (inimitabile) da fare invidia per la sua capacità di “incidere” senza il bisogno o la necessità di ricorrere ad alcun tono “predicatorio”, semplicemente illustrando il divenire degli eventi con causticità e precisione analitica, che fa la differenza e lo rende unico. Un film insomma che rappresenta il mondo ed il presente, con un intreccio così solido e variegato fra realtà e “letteratura” davvero esemplare (fra il “verismo” e il “neorealismo” si potrebbe dire e non è certamente un'eresia) che fa trasparire tutto l’amore profondo e la passione del regista per questa “storia” a lungo vagheggiata, che gli appartiene profondamente, e che per una serie di sfortunate e dolorose coincidenze, ha corso il rischio di non arrivare mai a compimento (un ringraziamento particolare a Claude Berri che è stato un acceso sostenitore dell’impresa: senza il suo interesse e la sua partecipazione produttiva, forse davvero niente di tutto questo sarebbe stato al momento realizzabile): la figura del protagonista, Slimane, “rottamato” in anticipo per motivi economici dall’industria portuale che lo ha sfruttato fino a quando gli ha fatto comodo, buttandolo poi alle ortiche come un ferro vecchio, e il racconto delle sue disavventure successive per tentare di arrivare a gestire l’agognato ristorante di Cous-cous (c’è anche una “innamorata” citazione nel finale che rimanda a “Ladri di biciclette” di De Sica con i dovuti e “necessari” aggiornamenti epocali) è direttamente ispirata a suo padre che avrebbe dovuto anche interpretarlo, se la morte non avesse impedito l’attuazione di questo progetto, e al suo vissuto. Ma se il protagonista è un uomo, il mondo che si declina piano piano intorno a lui è invece quasi matriarcale: sono soprattutto le donne quelle che hanno il coraggio e la forza di prendere in mano la situazione, di “tentare” di piegare il destino (anche quando sono vittime (in)consapevoli di soprusi e di prevaricazioni). Donne energiche e grintose, arrabbiate e perseveranti, pronte al combattimento e alla lotta, contrapposte a un universo maschile più schivo e defilato, certamente inerte e passivo, persino a volte inaffidabile e “traditore”. Non c’è molto da raccontare per quanto riguarda la vicenda (sono,come sempre in questi casi, i particolari e le situazioni che contano). Potremo riassumerla brevemente come quella di un lavoratore portuale (il porto di Sète) dismesso avanti tempo dal suo datore di lavoro, “diviso” fra due realtà familiari (quella della sua ex moglie dalla quale ha divorziato - con tanto di figli al seguito, che incarnano un universo molto variegato, come umori, pulsioni e prospettive - e l’altra, rappresentata dalla sua nuova compagna più comprensiva e attenta e dalla sua giovane figlia che gli si dimostrerà, fra tutti, la più affezionata e caparbia, come e di più che se lui fosse davvero suo padre) Un uomo che non vuole assolutamente arrendersi alla nuova condizione di incertezza e che per questo decide di riciclarsi per dare un futuro di speranza a se stesso e ai suoi congiunti. Intende farlo, tentando l’apertura di un ristorante di cous cous su un vecchio cargo arrugginito ancorato nel porto, fra lungaggini burocratiche e “intasamenti” resi ancor più evidenti e gravosi da indubbie motivazioni di carattere discriminativo comunque presenti, ma sorretto dalla sua cocciutaggine, oltre che dalla solidarietà di una comunità che lo appoggerà fino in fondo con indomito spirito di sacrificio e di coesione. Se la storia è semplice e “lineare” (ma tutto il lungo finale è una “scoperta” che è necessario far “gustare” pienamente senza alcuna anticipazione per la sue caratteristiche “specifiche” che innescano un “meccanismo” che potremmo definire – forse impropriamente – anche “a sorpresa”), sono invece moltissime le scene straordinarie che esaltano la grandezza del risultato, prima fra tutte la lunghissima sequenza del pranzo domenicale (un vero pezzo di bravura): tutti intorno a un tavolo a gustare il cous cous, con la macchina rigorosamente a mano che saltabecca da un volto all’altro, si sofferma e sobbalza evidenziando particolari e movenze, e le voci dei commensali che si intrecciano, si raccontano, dialogano e si sovrappongono formando una ragnatela sonora affascinante e significativa che definisce come meglio non sarebbe possibile, i caratteri che emergono e si rappresentano proprio attraverso la quotidianità “semplicizzata” dei gesti e la naturalezza delle parole. Un altro momento esaltante (una sequenza che lascia davvero senza fiato e con tutti i sensi in subbuglio) è quella dell’improvvisata “danza del ventre” estenuante ed infinita della figlioccia (veramente straordinaria Hafsia Herzi, meritatamente “incoronata” con il premio Mastroianni a Venezia) che cerca di “salvare il salvabile” con quell’atto di amore e di dedizione così intimamente carnale e partecipato. Salvo Hafsia Herzi (della cui bravura travolgente si è già accennato), l’unica fra tutti che intende continuare con la recitazione, il restante parterre di interpreti è formato (e non si direbbe proprio) da “non professionisti” (anche il sublime Habib Boufares che da corpo e sostanza a Slimane, è in effetti un operaio privo di precedenti esperienze in questo campo) ma i risultati sono per tutti davvero straordinari, certamente non casuali ma dovuti proprio al minuzioso impegno “preparativo” del regista che ha lavorato realmente di fino e con lunga e “consapevole perseveranza” lungimirante, come si può ben dedurre dalle sue dichiarazioni (Flim Tv n° 2 del corrente anno): “L’ESSENZIALE VIENE SPERIMENTATO E BEN STABILITO AL MOMENTO DELLE PROVE. HO FATTO LAVORARE GLI ATTORI, SOPRATTUTTO QUELLI GIOVANI, SU TESTI DI TEATRO, SENZA CHE CI FOSSE NECESSARIAMENTE UN LEGAME CON LA STORIA DEL FILM. HANNO PRESO TUTTI LEZIONI DI DANZA, PER LA LIBERTA’ DEL CORPO, E SOPRATTUTTO PER STARE INSIEME. LE MASCHERE CALANO, LE PERSONE SI LASCIANO ANDARE E SI CREA LA DINAMICA DEL GRUPPO”. Accomuniamoli quindi tutti, insieme all’autore, nell’applauso sperticato dell’ammirazione incondizionata. Un piccolo appunto che può essere fatto (ma è solo la solita indispensabile “concessione” per rendere più divulgativa e accettabile la fruizione della pellicola nelle sale italiane) riguarda non il film in quanto tale, ma il pur volonteroso doppiaggio (probabilmente davvero un’impresa impossibile in questa circostanza: nessuno sarebbe stato capace di ricreare davvero il “clima” della verità). Vista la preponderanza e gli “intrecci” dei dialoghi, si avverte infatti un che di artefatto, di “appicccicaticcio”, proprio nelle voci che sono oggettivamente estranee (anomale) e che soprattutto nelle scene corali, denunciano la “distanza” (la non appartenenza) dai corpi di riferimento, una “asincronia” che in qualche momento rende un po’ fastidiosa la percezione (sicuramente meno “naturale”). Indubbiamente quindi una pellicola che per le sue peculiarità dovrebbe essere “gustata” in lingua orinale con sottotitoli: aspettiamo allora con trepidazione il dvd per ridare ad ogni interprete il proprio “suono” e con questo, le giuste, “necessarie” cadenze di un intreccio vocale più genuino e diretto, in piena sintonia con le immagini e le preganti presenze fisiche dei “personaggi” (e degli “attori” che così bene li riproducono).
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