Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film
In un anno trascorso in sala, quasi mai capita di parlare di un film come di un capolavoro. Perfetto nella regia, sublime nello stile, profondo nel racconto, immenso nella messinscena, ottimo per la maestria degli attori. Insomma, non pecca in nulla il film di Abdellatif Kechiche, che alla Mostra del Cinema di Venezia ha vinto solo il Gran premio della giuria, mentre tutti ci aspettavamo il Leone d’oro.
La graine et le mulet (semplicemente orribile il titolo italiano) è la storia di Beiji, un pescatore prossimo alla pensione, che cerca di reinventarsi per sé e per la sua famiglia un’attività che possa garantir loro dignità. Beiji apre un ristorante di cous cous su una barca in rovina. La realizzazione del progetto sarà un’impresa epica, tanto quanto le imprese verghiane dei Malavoglia.
La storia di La graine et le mulet è tratta da un vecchio copione di Ghalya Lacroix. Di suo, l’immenso Kechiche, qui al suo terzo film, ci mette il cinema mondiale che ama: da Altman, a Guediguian, i Dardenne, passando dall’imprescindibile Ken Loach e naturalmente riscaldando i cuori (e la vista) di chi va al cinema, attraverso il suo modo personalissimo di fare cinema. Non diverso da quanto di meglio ha prodotto il Neorealismo.
Ambientato nella cittadina portuale di Sète, vicino Montpellier, la drammatica commedia si gioca tutta sulle difficoltà e la bellezza della vita, sugli antichi valori della tradizione popolare d’origine nord-africana, di contro alla cattiva burocrazia, che rende impossibile vivere, da togliere il respiro. E’ un film dai cinque sensi: li coinvolge tutti. Il gusto della genuinità, che passa anche dal grano-semola-pesce, qui trasformatisi in una sorta di “ostia”, essendo il cibo comunione e massima espressione di solidarietà, il tatto della sensualità, la vista e l’eros dell’inafferrabile. Ma c’è anche la fatica e la gioia dell’attesa, in un tempo e in uno spazio che Kechiche rimodella appositamente.
La famiglia degli attori, quasi dilettanti, tra i quali spiccano Habib Boufares e Hafsia Herzi, (premiata a Venezia), sembrano essere nati e fatti apposta per vivere sullo schermo. Così come aveva già fatto nel precedente film, La schivata, il regista tunisino riesce a raccontare, per mezzo dei suoi attori, la vita nel suo farsi. E in ciò diventa antropologo per mestiere, capace di raccontare, fin dalle viscere, il protagonista eroso dai suoi trentacinque anni di lavoro, allo stesso modo di come una ruspa possa demolire, fin dal di dentro, una nave priva di ancoraggio.
Tutto ciò è questo capolavoro di Kechiche. Il “piatto forte” di un cinema dal sapore inconfondibile, in cui l’epica, la cronaca sociale, il melodramma e la commedia, riescono ad amalgamarsi bene, fino a darci la sensazione di una certa sazietà di un gusto di terra e di mare. Il cous cous.
Giancarlo Visitilli
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