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Nella valle di Elah

Regia di Paul Haggis vedi scheda film

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La recensione su Nella valle di Elah

di chinaski
8 stelle

Una bandiera americana sventola rovesciata. Hank Deerfield (Tommy Lee Jones) ferma il suo pick-up e avverte un inserviente dell’errore. Questo sistema la bandiera. Poi Hank gli spiega il significato della bandiera capovolta. E’ la richiesta di aiuto da parte di uno Stato. O la sua resa. Ora la bandiera americana sventola per il verso giusto. Hank risale sul suo pick-up. Continua il suo viaggio.
Destinazione Fort Rudd, scopo del viaggio: trovare notizie sul figlio scomparso, Mike, tornato da pochi giorni dall’Iraq. Nella sua indagine sarà aiutato da un’agente di polizia (Charlize Theron) e insieme inizieranno a incastrare prove, testimonianze e intuizioni fino a ricomporre un (possibile) quadro dell'intera situazione, quella in cui il figlio di Hank è scomparso, quella in cui si trova un’intera nazione.
Il corpo di Mike verrà ritrovato ai margini di una strada. Smembrato. Pochi arti bruciacchiati sparsi tra l’erba alta. Hank è quindi costretto a rimettere insieme questo corpo, non tanto ad un livello fisico, materiale quanto nell’ostinazione con cui vuole ricostruire la sua storia, i suoi legami con gli altri soldati. Visitando la stanza del figlio, di nascosto Hank porta via il suo cellulare. Lo fa vedere ad un esperto di elettronica che trova dei filmati video (rovinati) al suo interno. Uno alla volta li spedisce tramite posta elettronica ad Hank, che inizia a capire cosa facesse il figlio in Iraq, fino ad una tragica e devastante rivelazione.
Paul Haggis racconta, attraverso una sceneggiatura curatissima e tratta da un episodio veramente accaduto, il dramma dell’America odierna e dei suoi figli. La sua regia è classica, quasi invisibile, con rari movimenti di macchina, fissa sulla scena che deve riprendere. Haggis mostra come la ferita della guerra in Iraq stia iniziando a diventare sempre più profonda, sempre più infetta. Tornati a casa, i soldati, tutti ragazzi, mostrano quanto la guerra li abbia trasformati, amplificando i loro istinti più bestiali, usurando ogni coscienza morale, facendoli scivolare nel consumo di droga (eroina, anfetamine, cristalli), innalzando i codici militari ad unica etica possibile.
Attraverso la sua indagine Hank, che è stato anche lui un sergente della polizia militare e che quindi quel mondo lo conosce bene, scopre cose inaspettate sul conto del figlio, scopre la vera spazzatura della guerra, quella che viene sempre nascosta, insabbiata, fino ad essere dimenticata, ad essere intesa come incidente, come errore.
Le uniche immagini della guerra “reale”, combattuta, sono quelle che ci arrivano dal cellulare di Mike, come se adesso raccontare la guerra fosse possibile solo in questo modo, attraverso immagini rovinate, scadenti, registrare attraverso i mezzi della (video)comunicazione contemporanea (cellulari, videocamere digitali). Come se non avesse più senso fare delle ricostruzioni scenografiche o immersive di una guerra per mostrarne l’orrore, come è accaduto –per esempio- per quasi tutta la cinematografia sul Vietnam, perché quell’orrore già lo abbiamo fatto nostro, metabolizzato, digerito. Grazie alla televisione, che con le sue immagini non riesce più a colpire, ad indignare. Un luogo catodico anestetizzato dove guerra e spettacolo si annullano a vicenda, dove le notizie sull’Iraq sono sempre minori, dove le morti sono utili solo per statistiche e mai per muovere le coscienze.
E saranno proprio queste immagini digitali ad aiutare Hank a scoprire la verità. Che non è più assoluta ma sempre parziale, sporcata da dubbi, incerta, frammentaria. Ma pur sempre un qualcosa a cui aggrapparsi. Pur sempre un tentativo di sistemare i fatti per trovare una loro consequenzialità, qualcosa che spieghi un omicidio tanto efferato, qualcosa che dia senso alla morte.
E la verità scoperta sarà delle più brutali, delle più sconvolgenti.
Tornato a casa Hank non avrà più le certezze di prima, in un pacco, speditogli dal figlio prima di rientrare negli Stati Uniti, troverà un suo regalo, una bandiera americana. Hank la porterà con sé in quel luogo dove giorni prima aveva visto quell’altra bandiera sventolare capovolta. Chiamerà quello stesso inserviente e gli dirà di innalzare la bandiera del figlio.
E il verso con cui la bandiera sarà issata e sventolerà è il vero e doloroso e muto e lancinante urlo di tutto il film. Un messaggio, una richiesta, qualcosa che tutti dovremmo ascoltare e vedere. Per provare a capire ancora una volta lo schifo del mondo.
Il titolo del film viene da un passo della Bibbia, quello che riguarda la storia di Davide e Golia. David come l’altro figlio di Hank, morto anche lui da soldato. Dice lo stesso regista – “Amo questo titolo perché contiene tanti dei temi affrontati dal film. Il Re Saul mandò il figlio David nella valle di Elha a combattere contro Golia, armato solo di cinque pietre. Mi sono chiesto: Ma chi farebbe una cosa del genere? Chi spedirebbe un ragazzo a combattere contro un gigante? Il film parla della nostra responsabilità per aver mandato tanti giovani uomini e donne in guerra.”
Il film parla del dolore, di genitori costretti a sopravvivere ai propri figli.
Il film parla del nostro mondo e di come continui insesorabilmente a marcire.

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