Regia di Paul Haggis vedi scheda film
Un vecchio militare, ormai in congedo, riceve la notizia della scomparsa del figlio marine dalla base americana dove era aggregato. Inizierà, tra mille difficoltà, a svolgere delle indagini personali, non fidandosi di quelle ufficiali, (non) scoprendo una verità inquietante.
La trama de “La Valle di Elah” trasmigra ben presto, sotto una facciata “thriller” investigativo, in paradigma sull’identificazione collettiva di una nazione. Una nazione, gli Stati Uniti d’America che, soprattutto nelle sua frange più conservatrici e retrive (estremiste), tende a semplificare l’insemplificabile (almeno per il popolo bue, gli interessi economici sono ben chiari a tutti); o bianco o nero, senza le variazioni cromatiche intermedie, quindi o buoni o cattivi. La guerra in Iraq, voluta da una delle più pericolose effigi umane (Bush) di questa “corrente” di pensiero, per la quale credo si possa ritenere valido ciò che prescrive il Principio di Incapacità dello psicologo canadese Lawrence J. Peter, citato da Pino Aprile nella prefazione del suo “Elogio dell’Imbecille”: ““In qualsiasi gerarchia, ognuno tende a essere promosso, finché non raggiunge il suo livello di incompetenza; pertanto, ogni incarico è destinato a finire nelle mani di un incapace. Il principio di Peter opera secondo un meccanismo logico abbastanza semplice. Chi entra in un sistema gerarchico e svolge bene il proprio lavoro, di solito fa carriera, sale sul gradino superiore nella scala. Se anche in quella posizione si dimostra efficiente, è ragionevole pensare che sarà ancora promosso. E così via. A questo modo, occupa livelli sempre più elevati, di maggiore responsabilità; ma le complicazioni crescono di pari passo e aumentano la qualità e la quantità dell’impegno e delle doti richieste. Fino a quando il nostro uomo ottiene un incarico con un grado di difficoltà superiore alle sue capacità””.
E quindi bushino e la sua cricca di petrolieri hanno trasformato l’Iraq in un inferno forse anche peggiore della dittatura di Saddam, oltre a destabilizzare tutta la regione ed a causare, direttamente o indirettamente, la morte di centinaia di migliaia di persone da ambo le parti (con uno sbilanciamento impressionante tra vittime indigene ed alleate). Ed a porre enormi dilemmi morali sulla stampa “embedded”, “torture necessarie” e sulle “extraordinary renditions”. Dubbi che attanagliano anche il protagonista del film, il duro Hank Deerfield/Tommy Lee Jones, ex poliziotto militare tutto d’un pezzo, man mano che le nebbie dell’inchiesta militare ufficiale vengono dipanate e, aggiungerei io, le pecche principali di un film promettente vengono alla luce. Tutto infatti è troppo “politically correct”, la sceneggiatura sembra concepita appositamente per suscitare l’ammirazione dello spettatore democratico/pacifista, con eccessive schematizzazioni di biechi ed oscuri poteri militari (forse la parte più credibile) e dei disumanizza(n)ti soldati mandati al macello, rappresentati, in toto, come macchine di morte fredde e calcolatrici, senza rimorso e senza castigo. Haggis risulta troppo categorico nei suoi assunti, sfiorando l’inverosimiglianza e rovinando leggermente la visione di questo “One Man Show”; il film è sorretto quasi interamente, infatti, dalla monumentale ed ambigua figura di repubblicano guerrafondaio interpretata da un impeccabile Tommy Lee Jones, emblema vivente e rugoso delle numerose crepe nell’ideologia della guerra giusta a difesa dell’”American Way of Life”, fatta di anonime e squallide villette a schiera tutte uguali, circondate da reti protettive. Tutte le altre figure, compresa quella della detective Emily Sanders/Charlize Theron, sfiorano la completa inutilità. La regia è professionale e si limita ad assecondare la verve del protagonista, senza particolari guizzi e sfruttando a dovere una discreta fotografia enfatizzante lo squallido retroterra umano americano.
Enfatica.
Professionale.
Icastico.
Superflua.
Sottoutilizzata.
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