Regia di Paolo Franchi vedi scheda film
L’odio ancestrale verso i padri, l’angoscia del riassetto emotivo, l’impotenza fisica come figurata, la sessualità come cruda nudità della comunicazione fisiologica. Protagonisti edipici che escono dalla tragedia del pensiero per entrare nella figurazione di un noir atipico, dove al posto dell’indagine poliziesca c’è l’accanimento psichico verso l’altro in opposiziose al sé stesso. Paolo Franchi dirige un’opera cerebrale che sa affascinare anche uno spettatore meno consapevole del ruolo psicoanalitico del cinema. Forse non tutti vogliono rendersi conto che il cinema, come tutta l’arte, è una forma di rappresentazione del pensiero, nonchè della vita. Trovo stupido soffermarsi ancora sulla dialettica tra cinema come arte e cinema come industria. Lo dimostra meglio Franchi che inserisce l’arte, quella plastica del padre del protagonista Bruno Todeschini, come filtro per interpretare le forze enigmatiche che ci spingono a scontrarci con l’emozione facile, ricercando un ingarbugliato modus vivendi che poi ci attanaglia e uccide. Il maledettismo di cui è pregna l’opera cerebrale del regista bergamasco, non va oltre una messa in scena schiva e rarefatta, non si addentra nella modulazione tipica del noir, o del giallo drammatico, e si inserisce invece nel circo triste delle vite piegate, quasi spezzate, che aspettano in riva al fiume un corpo nemico che mai passerà. Tra l’asetticismo degli interni sterili e spersonalizzati, e l’espressionismo di luci e ombre gravide di pathos nero, “Nessuna Qualità Agli Eroi” esce vincitore dal confronto quasi scontato con l’operazione concettuale che stava all’origine del lavoro di Franchi. Rappresentare la tortura intellettuale dell’uomo oggi, partendo dall’Edipo Re e passando per Dostoevskji, Kavka e Shakespeare, poteva essere, come è stato per l’intellighenzia critica italiana, un passo falso, più lungo della gamba. Ma il film, di difficile visione sia detto, grazie soprattutto ad Elio Germano e ai suoi forti interludi intimisti tra noir e teatro greco, sa sondare con precisione chirurgica il male di vivere che l’arte sembrerebbe oggi non essere più capace di raccontare. Un film che non sceglie la via pornografica della cruda visibilità erotica per far parlare di sè, quanto per spogliare e denudare i personaggi della loro dignità borghese, quella falsa e oscurantista che nasconde gli amplessi negli armadi, dietro gli usci chiusi a chiave. L’erezione di Elio Germano, un po’ goffa, consapevole del voyeurismo, e la seguente scopata selvaggia all’angolo di una stanza fredda e non vissuta, sono i segni di una verità fisica che emerge dal film solo nelle scene di sesso, mentre il resto è dedicato alla mistura tra realtà, o ad una delle sue tante percezioni, e il sogno, la digressione onrica con cui la vicenda del triangolo Todeschini-Germano-Jacob alterna spirito e materia. Un film difficile, ma riuscito, in cui Todeschini fa la parte di un grande leone ferito, mentre Germano, rachitico e bianco, esprime fisicamente, e con la sua bravura spiazzante, la malattia della carne umana a questo punto della notte.
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