Regia di Andrew Dominik vedi scheda film
A dispetto della sua fluvialità questo film si può riassumere in un istante: Jesse James scende da cavallo e si piega sull’acqua resa ghiacciata dalla stagione invernale, quasi a riprendere la situazione del famoso dipinto del Caravaggio: sembra che stia cercando le prove di un recente passaggio, in realtà il bandito si sofferma su altro, forse sta guardando la vita che verrà oppure cerca di capire qual è stato il senso della sua esistenza, chi lo sa. Poi, improvvisamente quasi risvegliandosi da un sogno ad occhi aperti e senza un apparente motivazione infrange quella visione con un colpo di pistola e riprende a cavalcare verso un destino ormai segnato. La telecamera indugia un momento per osservare il passaggio di un pesce sotto lo strato di ghiaccio, quasi una morte anticipata, una metempsicosi senza dolore che ricorda il “Big Fish”Burtoniano o forse una soluzione salvifica sul modello del Bodisawtha, una vittoria dell’armonia sul caos del creato, un desiderio di espiazione senza dolore che rimane sospesa nel flusso della vicenda che si va costruendo. È questo il bello del film e forse anche il suo limite, quello rimanere sempre sospeso sulla prossima scena, spiazzando solo gli impreparati per la mancanza di quell’apparato immaginario e narrativo che caratterizza il western in celluloide. Rivestito dall’etichetta del genere, “Jesse James” è in realtà un film sull’impossibilità di riproporre un filone cinematografico che ha perduto per sempre la sua epica, spazzata via da un etica contemporanea che non lo capirebbe e da una percezione del mondo in cui le potenza dell’immaginazione ha lasciato il posto alla certezza della tecnica. Un cammino verso la fine che ricorda quella del “Dead Man” Jarmusciano, se non fosse per la diversità dei toni, li surreali e stravaganti, qui dolenti e postmoderni, e per il diverso stile di recitazione, con un Brad Pitt più che mai serioso e meditabondo che prende il posto del “Dead Deep” imbambolato e bambinesco, oltre alle evidenti differenze cromatiche (quelle di “Jarmush/Muller” rigorosamente in bianco e nero, quelle di “Molik/Deakins” che alternano i colori freddi e lividi del paesaggio naturale con quelli degli interni illuminati alla maniera di Wermer, quasi una “roulette russa” tra vivere e morire). La leggenda del bandito è messa a nudo dallo sguardo impietoso del suo assassino (Casey Afflek tanto antipatico quanto meritevole del massimo premio veneziano) ma seppure filtrata da un sentimento di odio amore non riesce a diminuire il suo fascino nero, il magnetismo sciamano degli sguardi persi nel vuoto della sua anima e di quelli che gli stanno attorno. Nel Novello Narciso interpretato da un divo che deve fare i conti con un privato da uomo adulto e cerca di rinnovare la sua arte con un cinema di sostanza, c’è anche l’essenza di un film capace di andare oltre la storia, di entrare dentro al mito senza lasciarsi scoraggiare dall’impresa, di inoltrarsi in una dimensione senza tempo dove solo l’alternarsi delle stagioni e la natura leopardianamente matrigna ci ricordano che esistiamo, che non siamo già morti. Riesce a disegnare traiettorie esistenziali che sfuggono il parolaio quotidiano e si allineano con quelle dei grandi visionari (Malik e Mann per parlare del cinema recente)da cui li separa soltanto il compiacimento di chi sa di aver centrato il bersaglio.
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