Regia di Andrew Dominik vedi scheda film
E forse c’è ancora chi crede che il western sia un genere morto, per soli vecchi, e che sia la deriva della propaganda filofascista americana. Il western, parole di Anthony Mann, è il teatro di tutte le umane passioni. E può rivelarsi il più anticonformista, il più sovversivo e vettorialmente progressista dei generi. É un palco dove l’uomo, svestito dei panni della modernità, vive la sua condizione essenziale in una cornice “altra” che è semplicemente la proiezione del “ciò che vorremmo”. E infatti il teatro è centrale in questo bellissimo film monumentale di Andrew Dominik. Teatrale è la messa in scena. C’è poca azione, poche pistolettate, anche se molte sono poi le morti violente o gli atteggiamenti duri e crudeli, resi molto plastici dall’ispirata regia. Tutto è “interiorizzato”. Il taglio delle luci, i colori freddi, la staticità, gli interni, tutto fa pensare più a un teatro da camera che al genere che Bazin definiva cinematografico per antonomasia. E teatrale è il gesto attoriale degli istrioni in scena. Da Pitt ad Affleck, passando per Rockwell e Shepard, le loro interpretazioni si modulano tra il caricato e l’essenziale. Minimalismo e magniloquenza si fronteggiano ad armi pari lungo l’arco di tutto il film. E teatrale è il secondo finale, quello successivo alla morte di Jesse James, dove la reiterazione posticcia della vigliaccata vale come una discesa infernale dei due protagonisti di tale teatrino patetico. Il fatto viene vissuto, poi proiettato fuori da sé, ripetuto nell’artificio, e quindi rivissuto, risemantizzato. Il valore teatrale del film è palese, e questo non fa di “L’Assassinio di Jesse James” un non-western come alcuni vogliono ancora sostenere, ma bensì un grandissimo western, dove si dà al genere quel che è del genere: l’uomo nudo nel teatro del mondo. E bisogna dire che Dominik fa solo assonanza con Malick. É molto più personale che malickiano. Dominik non scardina le coordinate della narrazione, non rompe la realtà con la percezione lontana, sentita, sussurrata di Malick. Domink si fissa sui volti, sulle pose, sull’ambiente, in modo molto più eastwoodiano che altro. Riprende da John Ford la scomposizione dell’inquadratura e crea, attraverso porte, finestre e pertugi e spiragli, una porzione di sguardo nello sguardo, dove appunto se ne percepisce il valore cine-teatrale. Tecnicamente quindi indiscutibile. C’è il mito, c’è l’amore, l’amicizia, la sessualità, la patologia, lo strazio, la vita e la morte. C’è Peckinpah e lo spaghetti-western migliore, grazie a quel Jesse James nero angelo della morte, funebre proiezione silenziosa del suo da sé prossimo defunto. Una cadenza funeraria che non lascia scampo alle strette, alle contrazioni dei sentimenti, alle morse della pancia che si stringe ansiosa, e non lascia scampo al fascino visivo, alla seduzione dello sguardo registico. Ci sono immagini, “visività”, che superano la Storia, le storie, la narrazione e l’azione. Vanno oltre il sensibile e si fanno spirituali, impalpabili. Jesse James non è il Mito: è il valore che vogliamo dare noi al Mito. Ed è tutto il peggioramento, tutta la spregiudicatezza, tutto il pochismo e la bassezza dell’abbaglio dell’apparenza. Dove la “mostra” vale di più della riservatezza dell’essere, e diventa sbandieramento, ostentazione e sfoggio retrivo dell’istintuale aggressione dell’apparire invece che essere. Apparire, e gli americani lo sanno bene, è il biglietto da visita, molto calvinista, per il successo, il decoro morale e altre menzogne. Ciò che invece barbarizza l’uomo etico, fondandolo moralista, è proprio l’esibizione del suo lato corretto e timorato di Dio. Ecco che il cadavere di Jesse James diventa un’icona pop, che salta da una copertina all’altra, e travalica la realtà, spersonalizzando l’uomo-Jesse, inquieto, scisso, lacerato, e ri-creandolo immagine da commerciare, posandosi là dove il vuoto regna sovrano. Il codardo Bob Ford, invece, nella speranza del successo, s’inabissa nella dantesca brutalizzazione del suo egomaniacalismo, e si distrugge alla luce della verità. La finzione quindi passa proprio dal linguaggio cinematografico strepitoso, che Dominik ha utilizzato per narrare la vicenda di Jesse e Bob, per attecchire la realtà, la verità della terra e dei corpi e ridare la dimensione umana della vita narrata. Jesse James resta un Mito, perchè noi siamo coscienti che il mito supera la Storia, e lo conferma perpetuo John Ford. Il ritratto psicologico dei vari personaggi, dai protagonisti ai ruoli di contorno, è tutto teso a portare ad un livello reale tutto un’apparato di mitizzazioni e ornamenti che altrimenti ruberebbero la scena al mito. “L’assassinio di Jesse James” è spettacolare perchè è una narrazione in immagini che risolve l’irrisolto. La morbosa e ossessiva e compulsiva attrazione omoerotica, e non facciamo finta che non lo sia, tra il codardo Ford e lo stoico Jesse James è la rappresentazione tenera e commovente del grosso pianto moderno dell’uomo irrisolto. La scena a tavola, durante la cena in casa dei Ford, dove Casey Affleck dà il meglio di sè, è una palese dichiarazione d’amore. Che sia verso il Mito o verso l’uomo-Jesse non importa: di amore si tratta. La tensione omosessuale è connaturata ad ogni essere umano e si presenta nelle varie forme affettive che la nostra educazione ci permette. Quindi non stupiamoci e non ridicolizziamo questa possibile interpretazione. E comunque durante quella scena, magistrale tanto quanto tutto il film, come la rapina al treno (eco di Porter), il dialogo e la morte di Ed Miller e ovviamente la straziante esecuzione mortale di Jesse James, l’irrisolto viene palesato e umanizzato, pronto per essere accettato ed amato. Così, solo a visione conclusa, i crampi e le contrazioni intestinali si risolvono, proprio perchè la storia, quella minuscola, ovvero l’intrastoria di quegli uomini impavidi, fuorilegge liberi e selvatici, restà là. Restà là fissata, impressionata sulla caverna dove il nostro griot di turno ha proiettato le sue ombre. E siamo lì a rivederci, tra un capitoletto e l’altro di questa antologia mitica ed epica della vecchia frontiera, senza noia e senza preconcetti. Amiamo Jesse come il suo assassino. Amiamo gli interni spogli e freddi come gli esterni freddi e spogli. Amiamo i silenzi come le sparatorie. Amiamo Casey Affleck straordinario interprete dell’inquietudine mai sopita, come amiamo il Brad Pitt misurato, istrionico e intenso che dà volto al miglior Jesse James del grande schermo. Un film che usa il super 35 al posto dell’anamorfico per dare verità e terrignità alle vite e alle morti che racconta, senza ripulirle, incontaminarle, patinarle o renderle così nitide come l’artificio teatrale che chiude il film. La consistenza della grana della pellicola fa respirare alla pellicola stessa quegli ultimi scorci del 1800, dove prima moriva il Kid, e poi Jesse James per mano del codardo e amabile Robert Ford.
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