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Il treno per il Darjeeling

Regia di Wes Anderson vedi scheda film

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La recensione su Il treno per il Darjeeling

di scapigliato
8 stelle

Adrian Brody, Jason Schwartzman e Owen Wilson partirono preti, tornarono... curati!, per parafrasare il titolo di uno spaghetti-western commedia del 1973. No, non sono dei preti, ma curati lo saranno. Sembra banale credere che un viaggio architettato apposta per trovare sé stessi, tra l’altro proprio in India, alla fine si rivelerà davvero edificante. Questa banalità è poi banale solo aprioristicamente e solo sulla carta, perché l’esperienza del viaggio come luogo dell’anima e della letteratura del nostro spirito è e resterà sempre un’avventura delle emozioni che mai potrà cadere nel banale. Ma ci voleva il più interessante autore off americano del nuovo millenio a scardinare i canoni del genere, l’on the road, impreziosire visioni, personaggi e luoghi con il suo unico e riconoscibilissimo stile “altro”, confezionando il tutto con una regia ispirata che strizza l’occhio all’estetica anni ’70, la culla del road-movie, e con i riferimenti chic-pop che da “I Tenembaum” in avanti lo hanno celebrato come il regista più accattivante della scena americana. La storia è semplice: tre fratelli che non si parlano da un anno si ritrovano, per volere del maggiore di loro (Owen Wilson), sul treno coloratissimo che dà poi il titolo al film, il Darjeeling Limited.
Il regista confeziona uno dei migliori film dell’anno, che fa il paio spurio con “Into The Wild”. Nel film di Penn il viaggio nasceva, si sviluppava e finiva drammaticamente, qui Wes Anderson invece gioca la sua peculiare carta comica, quella del disarmo dialettico, e crea, sviluppa e finisce il film su corde diverse, né patetiche né banali. Il film è un on the train, perché il treno ha il suo significato peculiare rispetto alla macchina nell’on the road, brillante e pieno di ritmo, che stupisce per la freschezza dei dialoghi e per le caratterizzazioni dei tre fratelli Whitman, tutti in stato di grazia. Wilson è il solito Wilson, la simpatica canaglia alla Terence Hill che qui fa un po’ da fratello-fratellone che vuole pilotare e gestire vita, umori e gusti dei suoi fratelli. Adrian Brody, probabilmente il secondogenito, è lo sgraziato airone dalla faccia pestata che ruba tranquillamente la scena agli altri due, che non gliene abbiano!, grazie alla sua presenza scenica goffa, quel viso e sguardo stralunati, marziani. Adrian Brody è un allunaggio. Segue Jason Schwartzman, il fratello più piccolo, anche di statura, utilizzata questa anche in senso comico. Co-sceneggiatore e co-produttore del film, Schwartzman si prende anche il fortunatissimo ruolo dell’innamorato triste nel cortometraggio autonomo, ma idealmente legato al film (ImdB lo distingue come produzione autonoma), in cui si lascia andare ad una brillante e partecipata love-story con Natalie Portman che possiamo ammirare senza veli. Oltre alla Portman compaiono nel film volti noti del cinema andersoniano e non, come Bill Murray, Anjelica Huston e l’ex-Pagoda dei Tenembaum. In più c’è addirittura lo storico regista Barbet Schroeder nei panni di un commovente meccanico. Comunque, con l’azzeccato inserto del cortometraggio, il regista ci conferma la sua abilità nel disarmare lo spettatore. Qualità che conferma nel film stesso grazie alla sequenza dei bambini del fiume, interrotta purtroppo dal flashback del funerale del padre che rovina l’atmosfera bellissima che il film aveva trovato. Oltre a questa sequenza, che è il momento più alto del film, molti sono gli spunti originali e stilosi con cui la pellicola si fa solo amare. Inutile elencarli, basti ricordare che “The Darjeeling Limited” è a suo modo un western, dove i tre cowboy che cercano una madre che si nega, loro tre che fuggono dalla femminilità, si avventurano tra binari e treni scomodi, tra i nativi indiani con i loro costumi, la loro lingua e i loro animali, tra distese di sterpeti e deserti di frontiera. É un film di formazione, non va nascosto, e Wes Anderson dà il suo contributo originale a questo genere tra i più suggestivi. Ci ricorda infatti, dalla sua distanza autoriale, come il viaggio, il mezzo, i compagni e i luoghi e i volti incontrati, siano modulazioni della vita di tutti noi che si ripetono, in paradigmi magari sempre diversi, generando quella polifonia di informazioni ed emozioni tale da renderci unici e multiformi allo stesso tempo. Perché questa è la vita, un viaggio. Sembra banale detto così, ma banale lo è solo sulla carta.

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