Regia di Vincenzo Marra vedi scheda film
Un film infelicissimo. Dura solo un’ora e un quarto, eppure annoia parecchio. Non dà quasi nessuno spunto intelligente di critica e analisi, mentre lo vorrebbe dare. Quello che è più allarmante sembra questo: è impossibile non criticare proprio coloro che il film addita come personaggi positivi, ovvero in particolare i due giudici. È abbastanza evidente che questi vengano messi in buona luce: eppure ciò sortisce l’effetto contrario, di mostrarne i difetti,e financo il tangibile squallore. Questo documentario è un fallimento proprio per questo: mostra la non credibilità, l’inadeguatezza umana e culturale di questi due giudici, che pure vengono mostrati, pur nelle difficoltà e nelle contraddizioni esibite, come un baluardo contro l’illegalità.
È tutto il contesto a destare un profondo sconcerto: è abbastanza irritante la realtà sociale che riproduce. Ma non sembra che il regista abbia voluto apertamente fare un’opera satirica. Eppure di elementi grotteschi abbonda il film: se l’Italia migliore, quella che resiste alla corruzione e alla violenza, è questa, beh, allora si capisce perché la corruzione e la violenza saranno sempre più convenienti e sempre più vincenti. I due giudici sembrano proprio presi in giro da sé stessi. Ma come è possibile che abbiano accettato di esporsi a questo ludibrio senza ritirare la propria autorizzazione? Le possibilità sono due per il regista: o vuole sfottere coloro che usa come protagonisti (e pare improbabile); o cerca di mostrarne comunque un volto positivo o credibile, che è quello che sembra fare, ma in modo fallimentare. Se si vuole fare satira sullo squallore della giustizia italiana (ma perché difende sempre i ricchi che delinquono, non per altro!), allora bastavano Totò e Peppino che, da giganti quali erano, rendevano ridicolo in modo memorabile ciò che toccavano.
Questo è un elenco sintetico degli aspetti di cui un italiano non può che vergognarsi, alla vista di questo film, che comunque mostra realtà: volgarità diffusa; pressapochismo e faciloneria laddove ci si aspetterebbe professionalità e qualità; ricorso allarmante al dialetto, e incapacità di padroneggiare costantemente la lingua italiana; ragionamenti spesso privi di coerenza logica, proprio da parte di personaggi che hanno fatto grande carriera nella giustizia, e che verosimilmente prendono 3, 5, 10 mila euro al mese, e per i quali ci si attenderebbe che abbiano superato una selezione difficilissima, e aver mostrato livelli molto alti di preparazione, di cultura, di intelligenza …, di cui francamente non c’ è traccia, anzi; tendenza tipicamente italiana alla retorica, come difesa dalla consapevolezza della propria incapacità e frustrazione (parlare pianissimo e con paroloni, spesso vuoti, si crede che permetta di coprire i propri vuoti, le proprie carenze; ma non è così); luoghi comuni da bar, e non riflessioni da teste che hanno una grande responsabilità. Summa di questo scempio è la festicciola improvvisata con i giurati popolari: mangiano come se fossero all’osteria assieme ai giudici popolari; e soprattutto dicono cose da osteria i due giudici. Il primo da ignorante impresentabile, conservatore e limitatissimo, che sostiene la naturale inferiorità della donna; l’altra che difende teorie anche giustificabili, ma con delle contraddizioni e un’assenza di rigore argomentativo che andrebbe corretta anche in un liceale.
Discorso a parte merita l’avvocato: in lui si ravvisa, assieme alla fastidiosissima tendenza a farsi apparire molto più validi di ciò che si è, anche una certa intelligenza e preparazione, non v’è dubbio, ma al completo servizio del male: è il più bravo e campa bene solo a difendere i camorristi. Questa è una cartina tornasole dell’Italia, del sud ma non solo: la qualità viene remunerata adeguatamente solo se è al servizio dell’illegalità (pur nei modi legali, come avviene qui per la situazione particolarissima dell’avvocatura).
Il film appare assai modesto anche perché dice poco: gli unici aspetti utili sono le riflessioni in auto del giudice principale (che almeno ammette che la giustizia è sempre più offesa dallo stato, e di fatto non c’è: almeno uno spunto critico reale per riflettere lì è dato), e dell’avvocato. Ma sono cinque minuti in tutto.
Il meridione fa una figura pessima, qui. Detto da un italiano che riconosce appieno tutti gli aspetti positivi del Mezzogiorno, come anche quelli negativi purtroppo, questo affresco crea un dolore lancinante. Ma si stenta a credere che sia stato volontariamente provocato dal regista. Perché non sembra affatto che si induca una reale autocritica in chi eventualmente sarebbe destinatario di tale salutare sollecitazione. Normalmente se si induce autocritica ci dev’essere anche un personaggio positivo, che critica e che propone gli scenari per il miglioramento. Qui c’è nulla di ciò: si favorisce invece l’appiattimento di chi pensa che è inevitabile che le cose vadano sempre peggio, proprio perché vede che la classe dirigente (qui i giudici) è così rinunciataria, e di un livello umano, morale e culturale, penoso.
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