Regia di Woody Allen vedi scheda film
Non riesco a capacitarmi del perché questo film sia stato cassato da un certa critica. Eppure gli ingredienti della tragedia ci sono tutti, in qualche modo impliciti sin dall’inizio. Il destino dei due fratelli, Ian e Terry, è segnato già per il nome che danno alla loro piccola barca acquistata al ribasso, Cassandra’s Dream. I due fratelli hanno un carattere diverso: Ian è più calcolatore e dedito al desiderio di riscattarsi dal ristorante a conduzione paterna cercando di farsi strada in investimenti immobiliari alberghieri; Terry, invece, è di animo più semplice, operaio meccanico di una piccola officina, che desidera una condizione economica migliore per sé e la sua compagna, e cerca di arrotondare il misero salario con le vincite derivanti dalle scommesse sulle corse dei cani.
Sono ben delineati i rapporti che i due fratelli intrattengono tra di loro e con il padre, un uomo che non ha mai rischiato, che tiene al suo ristorante nonostante sia in perdita, ma che sa restare all’interno del proprio limite, senza dunque tracotanza e regalando, quando è in vena, momenti di saggezza ai propri figli. Interessante anche il profilo della madre, tenera e critica ad un tempo nei confronti del marito.
Un tema che ricorre in quest’opera è quello dell’hybris, la tracotanza, il desiderio di varcare il limite assegnato all’esistenza, oltre il quale tutto può essere stravolto e sgretolato dalle stesso destino messo alla prova. Qui diventa centrale la tragedia greca, quindi anche una certa filosofia, che vede nella lotta per la vita e per la potenza una corsa in cui gli autori, che si credono tali, in realtà non sono che marionette della fatalità o, detto in termini più nichilisti, del caso, prodotto e produttore di egoismi in lotta tra di loro senza vincenti, ma con un perdita per tutti tranne che per il caso stesso, che continua imperterrito, nella sua insensatezza, a stritolare gli uomini, in particolare quelli che non sanno stare al proprio posto.
E’ confermata a più non posso, dal regista, una visione sconsolante della vita cancerogena, che ricorda molto quella del filosofo Schopenhauer. Lo stesso padre, a un certo punto, riconosce di essere stato al proprio posto, nella vita, solo per egoismo, per paura di non stare a galla nel rischio. Ma la paura, in questo senso, diventa prudenza, una virtù molto apprezzata dai greci e dallo stesso Schopenhauer, che rispetto alla vita, all’homo homini lupus universale, ritiene sia preferibile un’astinente nolontà.
Invece questi due fratelli non si danno pace, chi per un verso chi per un altro cerca di riscattarsi, con l’effetto di colare a picco: l’uno per debiti nel gioco d’azzardo e l’altro perché non può più chiedere soldi al fratello indebitato.
L’occasione di uscire fuori da questa aspirale è data dallo zio materno, un uomo che si è fatto tutto da sé, un grande imprenditore di cliniche estetiche, il cui successo è reclamato persino nella Cina comunista. (Sono pochi i film in cui il regista non faccia accenno in modo esplicito o implicito al socialismo o al comunismo, per quanto in modo molto raffinato e silente.)
Tutta la famiglia si raccoglie intorno a quest’uomo, che è venuto a far visita. I due fratelli gli raccontano le loro disavventure e gli chiedono un aiuto considerevole. Bella scena umoristica, perché lo zio, dopo aver premesso che non li giudica e non si fa scrupoli morali, chiede loro niente meno che di eliminare un uomo che si sta accingendo a rivelare gli illeciti su cui si basa la sua ricca impresa con l'esito nefasto di farla saltare in aria (eloquente il messaggio che la ricchezza imprenditoriale ad alti livelli è sempre malsana) .
Ed è sbalorditivo vedere questo zio, un vero e proprio capitalista galantuomo familistico, trasformarsi in luciferina bestialità di fronte alle reticenze morali dei nipoti. E così i fratelli, condannati all'esecuzione dell'esecuzione, dovranno compiere l’omicidio con tutte le premesse e le conseguenze che ne derivano, con gli annessi e connessi di Delitto e castigo di Dostoevskij. Ecco allora farsi innanzi altre tematiche salienti: l'ansia, lo scrupolo, il cinismo, il senso di colpa, la follia, il desiderio di redimersi e quant’altro possa condire la tragicità degli eventi.
C’è poi un’altra tematica di Dostoyeschij presa da Il giocatore: l’essere attratti dal gioco d’azzardo al fine di vincere, ma con il segreto desiderio di poter perdere. E in effetti è proprio questa tematica che redime sul serio i nostri eroi nell’estremo finale, che in qualche modo ci riporta alle atmosfere inquietanti di Cul de sac di Polanski.
Notevole, per me, anche la messa in scena dell’idea della coscienza (le immagini dell'amplesso dei corpi riflesso nello specchio), come spazio di riflessione su quel che si era e su quel che si diventa nel gioco di un attimo, che trasforma le identità esistenziali in modo irreversibile e irrimediabile. Quel che si è prima e quel che si è dopo è solcato da un abisso istantaneo, che solo la coscienza sa trattenere nell'acciecante invisibilità dell'arrovellamento che si specchia in sè senza senza più appigli. Sarebbe bello vederci anche qualcosa di Kierkegaard... soprattutto quando Terry sprofondando nella crisi della colpa si chiede se esista un Dio. I due fratelli, alla fine, rimandano un pò alle figure di Abramo e Isacco in Timore e Tremore, proprio nell'attimo in cui Abramo deve sacrificare Isacco. Un'altra immagine può essere quella di Caino e Abele. Insomma, Woody Alllen sa mantenere con estrema maestria i rimandi del Pensiero e metterli in scena.
Davvero un bel film, da rivedere e rivalutare.
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