Regia di Woody Allen vedi scheda film
il progetto è intrigante ma in gran parte frenato da una sceneggiatura che presenta qualche incongruenza e uno scavo psicologico meno incisivo del solito che non si eleva mai al di sopra della “convenzione narrativa” rischiando così di scivolare verso un moralismo di facciata che non è più “critica” ma “assuefazione”.
Che Woody Allen non sia bravo a tirare le fila registiche delle sue opere, anche delle più sfilacciate e incerte, non si può certo dire: ha dalla sua in ogni caso la curiosità dello sguardo, il gusto del paradosso, la forza dell’intelligenza e la capacità di “guidare” con indubbia maestria la macchina da presa. Eppure ancora una volta, di fronte a questa sua ultima fatica, si esce con un fortissimo senso di malcelata delusione. Cos’è che non va? Direi davvero molto, e in questo caso, prima di tutto la mancanza d’ispirazione. Sembra che glie lo abbia ordinato il medico di sfornare assolutamente e improcrastinabilmente almeno una pellicola all’anno. Sarà propedeutico per le sue finanze non lo metto indubbio, non certo per la nostra condizione di spettatori fruitori del risultato. Se si eccettua il felice (almeno per quanto mi riguarda) esito conseguito con Match Point che sembrava averlo riportato ai fasti di un tempo, è ormai da troppi anni che la sua carriera è abbastanza ondivaga (anche se si esce sempre fuori dalla sala con qualche spunto riflessivo “interessante”, con molte osservazioni critiche che lasciano il segno, e tante battute e situazioni da ricordare) e il tutto non può essere ovviamente imputato solo a una certa decadenza senile, che comunque avrà il suo peso. C’è indubbiamente anche l’usura di una sovraesposizione che alla lunga tende a far diventare ripetitiva e un po’ troppo circolare come temi e condizioni narrativ, anche l’intelligenza più feconda. “Cassandra’s Dream” che conclude praticamente la cosiddetta “trilogia londinese” (un’altra barbarie la traduzione italiana: forse era meglio che la nostra produzione autarchica non avesse avuto questa “ripresa di consensi”, perché avremmo evitato così la stupidità di traduzioni troppo furbette e incolori. Quando il semplice pensare che un titolo in lingua italiana fosse da solo capace di tenere lontano il pubblico, ci veniva per lo meno risparmiato l’obbrobrio di certe “reinterpretazioni” poco ortodosse, e non correvamo il rischio di fare “brutte figure” come in questo caso, capaci persino di fuorviare le aspettative del pubblico meno “consapevole”), sembra quasi una ciambella mal lievitata, dove tutti gli ingredienti sono ottimi, ma purtroppo il risultato finale non quaglia. Siamo ancora dalle parti dei “delitti senza castigo” (le fonti di ispirazione del nostro, soprattutto quando affronta temi seri, sono dotte e qualificate, ma si rigirano spesso intorno agli stessi numi tutelari, e anche questo finisce per togliere spessore e “innovazione”, non solo alle tematiche esposte, ma anche ai risultati) e si avverte un inevitabile “rimasticamento” che ci fa sovente trovare nella spiacevole condizione di avere il consistente dubbio di stare assistendo a qualcosa che abbiamo già visto, per altro con migliori e più intriganti esiti proprio filtrato dallo sguardo caustico e feroce dello stesso regista in miglior stato di grazia (“Crimini e misfatti”, “Match Point”). Qualche “pedina” spostata, forse una maggiore ironia nel disegnare i contorni delle figure, una recitazione istrionica quasi “alleniana” per quanto possibile degli interpreti (nel senso che pur non disturbando, si intravede più volte la “matrice” sia in Farrell che in MacGregor, il segno inequivocabile e distintivo di una “modalità, qualche battuta al fulmicotone e così via. Ma non è sufficiente mischiare un poco le carte e “vestire” di differenti note la colonna sonora (questa volta una splendida partitura di Philiph Glass” forse persino troppo “importante” e prevaricante, come spesso accade quando ci si affida a una personalità così dirompente e particolare come quella del musicista in questione) perché il risultato sia in grado di risplendere di luce propria e di coinvolgere fino in fondo (e forse alla fine sono maggiori i rischi che i vantaggi). La circostanza all’esame ne è la conferma palpabile perché il risultato si potrebbe perfino definire come una stanca (a tratti svogliata) reinterpretazione di storie già esposte, quasi una “prova generale” che gira intorno alla consueta e totale mancanza di speranza di una umanità famelica e senza più alcuno scrupolo etico già ampiamente rappresentata in precedenza, recuperata furbescamente per “opportunismo” pecuniario. Quindi ancora una visione assolutamente pessimista e priva di sbocchi “positivisti” (come deve essere: i tempi attuali non inducono certo all’ottimismo!!!) ma con un che di manierismo meccanico nella esposizione (che non è ovviamente priva di momenti felici e di “intuizioni” curiose,) che non la “illuminano” fino in fondo e rischia persino di scivolare verso un moralismo di maniera che non è più “critica” ma “assuefazione”. I personaggi principali sono due fratelli (il primo, Terry, garagista con il vizio del gioco d’azzardo e una impudente fortuna dalla sua; il secondo co-gestore frustrato dell’attività di ristoratore di un padre menomato momentaneamente da un recente infarto. Intorno, la famiglia, il mito di una barca e la necessità di apparire più che di essere oltre che la inconsistenza di affetti e di legami concreti e partecipati a cui ancorarsi. Su tutto, la figura venerata dello zio quale modello di successo sociale, che rappresenterà proprio la presenza catalizzatrice degli avvenimenti che porteranno a quella che potremmo definire come “la catarsi finale” di una tragedia annunciata. Non mi sembra sia il caso di aggiungere di più, se non che esiste anche qui un analogo arido universo femminile che contribuisce a definire la condizione, e di sottolineare che probabilmente il senso ultimo del film potrebbe semplicemente essere sintetizzato (come in parte indicano anche i flani pubblicitari) proprio nella esposizione di un dilemma non secondario come questo: “fin dove potremmo essere disposti a spingerci per sostenere e rendere fattibile la nostra aspirazione alla felicità – o presunta tale – e al benessere economico?. E una volta oltrepassati i limiti, arrivando al punto di non ritorno persino di una possibile azione delittuosa, quali potrebbero essere le conseguenze in termini di sensi di colpa e di equilibrio?”. Messo così, converrete che il progetto è intrigante (ma forse questa volta tutto è frenato persino da una sceneggiatura che presenta qualche incongruenza narrativa, uno scavo psicologico più manierato e meno incisivo del solito che non si eleva mai al di sopra della “convenzione narrativa. La prima parte è più compatta e omogenea, poi il ritmo, anche se più veloce del consueto, si allenta un poco e con esso anche la tensione, fino a lasciarci distratti ed “esterni” alla tragicommedia alla quale siamo chiamati ad assistere. Dice bene Mario Gervasini: manca il “romanzo” che inchioda. Per il resto, come sempre in Allen le ambientazioni sono insolite e”ricercate”, le interpretazioni ben calibrate (Mc Gregor, Farrell, ma soprattutto Tom Wilkinson, ancora una volta il migliore in campo), i “volti” femminili (soprattutto quello di Hayley Atwell) straordinariamente intriganti ma proprio chi come me ama il “grande” Allen tutto questo non può essere sufficiente ad assolverlo. Io credo che proprio quando si apprezzano le qualità superiori di un regista, non possiamo correre il rischio di scendere nel fanatismo inopportuno di “osannare” sempre ogni cosa a qualunque costo perché non faremmo un buon servizio né all’autore né a noi stessi (intesi non come singole entità, ma come il complesso degli spettatori finali). Dobbiamo anzi assumerci la “responsabilità” di “denunciare” possibili “cadute” soprattutto quando queste diventano frequenti e maggioritarie per stimolare (speriamolo almeno) il pieno e totale risveglio dell’ingegno e per suggerire che... quando questo è meno pressante o latita del tutto, è meglio desistere e astenersi.
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