Regia di Meir Zarchi vedi scheda film
Tradotto erroneamente con un titolo che lascia intendere in qualche modo un ammonimento che non ha corrispettivi effettivi nella trama (e che dà al film un certo chè di moralistico che stona gravosamente con ciò che viene poi messo in scena), I spit on your grave nasce sulla lunghezza d’onda del horror underground americano anni Settanta, che ha in Wes Craven e Tobe Hooper i suoi più grandi esponenti. Meir Zarchi è un nome meno noto, seppur riconosciuto da chi ha consegnato a I spit on your grave la fama di piccolo cult - fama certamente meritata, vista la qualità che lo contraddistingue a confronto con altre opere coeve, spesso anche sopravvalutate -; e in occasione di una narrazione semplice ed elementare (propria di una storia altrettanto semplice e, oggi, abbastanza prevedibile, il che dà al film un’aura un bel po’ datata) egli si presenta con una regia spoglia, cruda e in un certo senso poco “graffiante”, benché così sporca da aderire perfettamente ai terribili accadimenti che caratterizzano il film.
Annosa la questione – anche questa datata – sull’eventuale misoginia del film: I spit on your grave si presenta così freddo e agghiacciante da non dare alcun tipo di certezza in termini di eventuale manicheismo. Potenzialmente più interessante invece constatare con quali metodi stilistici Zarchi riesce a sconcertare lo spettatore anche oggi, con immagini che per allora hanno ovviamente scandalizzato e fatto urlare all’oscenità. La mancanza di spessore dei personaggi (che non li lascia privi di una forse scontata ma comunque interessante ambiguità di fondo) è funzionale alla freddezza generale con cui il film si presenta agli occhi: le inquadrature non fanno altro che accompagnare la trama senza prendere mai il sopravvento, né eccedere in formalismi superflui. È vero però che, nonostante la schiettezza, manca uno slancio personale che faccia davvero ricordare le immagini di Zarchi. L’idea della sceneggiatura, ovvero di scandalizzare genuinamente con i resti di un’umanità resa brutale dall’accidia e dall’inanità, è sempre tanto palpabile da rendere qualsiasi altra lungaggine sottilmente pretestuosa, al punto tale che la potenziale atmosfera asfittica viene smorzata dalle graduali certezze (filmiche stavolta) che si fanno strada nel pantano e conferiscono al film quella patina di “antico” un tantino respingente: se anche la questione morale è quella che ne esce più stordita e confusa, men che meno la confezione appare risaputa e conformista, tanto che in questo caso maggiore spessore per i personaggi avrebbe probabilmente giovato, pur riducendo la freddezza che rende I spit on your grave interessante (ma appunto, più interessante che propriamente bello).
Dunque, se la questione del sessismo appare come la più annosa e barbosa (nel film non si salva nessuno, la condanna sembra estendersi all’intero microcosmo umano messo in scena), essa risulta anche come la più voluta, come se il film non proponesse altro che quella. Rischia di rendersi inutile, alla luce di questo, il tentativo di Zarchi di arrivare all’obbiettivo (volendo, legittimissimo) tramite un linguaggio che sappia enfatizzare e sottolineare le perplessità che destano i risvolti narrativi, soprattutto quelli finali. Potremmo considerare sufficienti la secchezza e la spontaneità, vogliamo considerarli sufficienti (per rendere conto di quella fama sotterranea e fuori dai circuiti ufficiali che il film ha ottenuto), ma non possiamo poi, volenti o nolenti, concedere tanto di più a un film che più di una visione certo non la merita.
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