Regia di David Yates vedi scheda film
Esempio di serialità cinematografica, la saga dell’aspirante maghetto, rispetto ai canoni televisivi, sviluppa puntata dopo puntata l’arco mitologico avventuroso, tralasciando lo sviluppo psicologico dei personaggi, ogni film definendosi quasi esclusivamente come una tappa di avvicinamento alla conclusione e al disvelamento dell’arcano.
I personaggi, compatibilmente con l’ambientazione favolistica, sono tratteggiati senza sfumature, con poche variazioni, se non anagrafiche, sul rispettivo “tema portante”, una caratterizzazione che rimane pressoché identica da un episodio all’altro. Ciò che importa conoscere in questa trasposizione magica del sistema scolastico inglese, è la vicenda di Harry, il suo misterioso passato, le radici del malessere e la predestinazione che ne ha condannato i genitori. Solo questo aspetto viene progressivamente messo a fuoco dai film, diversificati dalla maggiore o minor bravura del regista, ma sostanzialmente impegnati a dissipare questi misteri più che a caratterizzare i personaggi o a sviluppare linee narrative trasversali o parallele. E Harry, con l’avvicinarsi dell’epilogo, lontano altri due film, si fa più centrale, i compagni d’avventura sempre più marginali, comparse ben note ma fuggevoli.
Ironicamente, Radcliffe sembra invece attraversare il film con attonito timore, come se qualcosa dovesse da un momento all’altro sbucare da una parete per terrorizzarlo, lo sguardo un po’ fisso dietro agli occhialetti tondi, mentre i comprimari paiono mostrare un maggiore interesse per la recitazione o i personaggi, benché rimangano penalizzati dall’economia fantasmagorica del progetto. L’esordio del film, con il balenare degli spiriti nella campagna inglese, la stilizzazione fotografica nel contesto realistico (la dominante blu ripresa dal Prigioniero di Azkaban), sembra promettere una sterzata della saga, benché questa torni poi ai suoi consueti canoni, distinguendosi dai precedenti solo per una vicinanza quasi fisica ad Harry, con primissimi piani e dettagli, l’approfondirsi dell’elemento onirico e l’insinuarsi dell’incubo nella realtà.
Ma i tormenti passati, incuneati nel presente ad avvertire dell’imminente minaccia, diventano un attento e pedissequo riepilogo delle puntate pregresse, rileggono il tessuto cinematografico per farne riemergere la trama e tirarne le somme in vista di snodi futuri. “Negli episodi precedenti”, si direbbe in tv, ambiente frequentato assiduamente (e con buon i risultati: State of Play, Sex Traffic) dal regista David Yates, già promesso alle redini della prossima puntata. Eppure, la pomposità degli effetti speciali, una certa meccanicità dell’impianto, la sbrigativa definizione delle psicologie, l’assuefazione al pubblico adolescenziale di riferimento, il catalogo vivente di attori britannici di fama internazionale (tutti elementi assenti dai lavori televisivi di Yates), limitano l’incisività di una saga che forse solo con Cuaròn aveva trovato un regista capace di fondere divertimento con un minimo sindacale di attenzione per il racconto o per le immagini, ma anche infondere una certa inquietudine che permaeva la pellicola e permetteva ai personaggi di emergere e di subentrare ai giocattoli tecnologici o magici onnipresenti e sempre più ingombranti.
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