Regia di Michael Bay vedi scheda film
È in effetti difficile sperare in qualcosa di cinematograficamente interessante andando a vedere un film tratto da dei giocattoli. E le aspettative non vanno deluse con Transformers, il cui livello mentale è stabile all’adolescenza agitata del suo protagonista.
Michael Bay è ormai l’unico reduce ad ancora tener fede ad un immaginario pubblicitario, su cui impianta stile e sintassi cinematografica, rimanendo sempre confinato alla superficie di quanto mostra, dei personaggi quanto delle riprese. Cura la fotografia, l’inquadratura più del suo contenuto e il punto di vista rimane sempre secondario rispetto al punto di ripresa più spettacolarmente calzante. Per quanta profondità di campo possa esserci, in queste riprese la prospettiva è azzerata, c’è un’imposizione assolutistica della visione, l’appiattimento sulla superficie dei contenuti. Tutto diventa iconografia, e poiché tutto è ormai in superficie, l’illusione di profondità deriva dalla illusione percettiva. Tutto è quindi necessariamente già visto, noto, rimasticato perché la rapidità della visione necessita di un apporto mnemonico per la ricostruzione degli elementi mancanti alla narrazione, la cui funzione è solo di messa in immagini della sceneggiatura, non più di creazione di senso.
Non a caso il film è zeppo di riferimenti pop che quasi mai raggiungono lo status nobilitante della citazione, integrata al contesto filmico per arricchirlo di significati e rimandi (tranne forse il richiamo degradato nel comico di Christine di Carpenter): è solo un semplice gioco nozionistico di rimandi arcinoti per avvicinare il pubblico di riferimento, strizzatine d’occhio complici ad un preciso immaginario collettivo che permetta l’immediata riconoscibilità nella complicità che nelle mani di Joe Dante o Zemeckis avrebbero dato ben altri risultati. La Camaro di Cars, rivestita a strisce come la tuta di Kill Bill, un’ambientazione tardo-adolescenziale alla E.T., riletta su base Trekkie (il cubo Borg) ma aggiornata ai filoni paranoico-paranormali (X-Files) con flash-back in stile Indiana Jones, spunti alla Armagueddon, rifatto nelle inquadrature e nominato nei dialoghi, il tutto in salsa demenzial-catodica con qualche inserimento di firme (gli sceneggiatori sottratti a JJ Abrams) e volti noti del piccolo schermo (Las Vegas, Prison Break) per spacciare la stupidità come leggerezza di tono, la ruffianeria per cultura.
Completamente tarato sul suo target liceale, con famiglia ingombrante e travagli sessual-ormonali in funzione di alleggerimento comico, il film stenta ad avanzare, lascia inizialmente i robot sullo sfondo come epifanie inquietanti. Ma quando emergono in primo piano per necessità spettacolari (più che narrative) e fanno indegno outing della loro personalità, la natura di giocattoloni grotteschi si rivela appieno, i protagonisti umani vengono scalzati dal proscenio e trasformati in accessori viventi di macchinone senzienti, diventando spettatori in balia di una esibizione fuori scala. Ingombrante ed indigesto, Transformers è un tripudio cacofonico di effetti speciali con la minaccia di qualche sequel (i robot sono ormai qui per proteggere), tardivo tentativo di far rivivere il filone catastrofico trafugandolo negli zainetti scolastici attraverso i pupazzetti degli autobot e dei decepticon. Un film brufoloso, eccessivo e pubblicitario, nato dalla vendita dei giocattoli e che finisce per vendere sé stesso nel rilanciare il successo dei pupazzetti con la sua estetica da spot anabolizzato. Ma che, pur grondando guerriero patriottismo, non riesce a negare la possibilità di tracciare un (involontario?) parallelo tra l’intervento dei robot distruttori e le incursioni democratizzanti dei soldati Usa nel mondo, grazie al prologo nel deserto con gli americani fuori porta ad esportare democrazia, e nell’esaltazione dei valori incarnati da marines e recuperati dai robot, accaniti nel sacrificio, che mietono vittime per salvarle dalla dittatura meccanica, scontrandosi con propri simili ugualmente armati e ciecamente motivati in città che devastano per il bene comune, con corollario di danni irreparabili e vittime collaterali.
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