Regia di Ernst Lubitsch vedi scheda film
Il filo conduttore che lega le comiche degli anni venti ai kolossal hollywoodiani è il Cinema pensato come una gigantesca macchina teatrale, dalla scenografia ricca e mutevole, provvista di cassetti pieni di sorprese, di spettacolari trabocchetti, di prodigiosi ingranaggi perfettamente sincronizzati in una coreografia da favola. Con Sumurun, Lubitsch riveste questa magica visione con i lussureggianti decori del Vicino Oriente, dove, come nelle Mille e una notte, la poesia è una fantasiosa danza intrecciata di bellezza e genio allo scopo di aggirare il crudele potere dei tiranni. Quest’opera - tratta dall’omonima pantomima di Friedrich Freska con musiche di Victor Holländer – esattamente come la narrazione di Scheherazade, procede a suon di stratagemmi, che deviano il corso della storia allontanandone la fine. L’invenzione diventa così il vero respiro del racconto, come il colpo di scena lo è nella commedia, o il deus ex machina nella tragedia: sullo schermo, però, questo effetto si può replicare all’infinito, sfruttando il dinamismo della ripresa, che consente rapidi viaggi nello spazio e nel tempo, alla ricerca dei destini separati che si incroceranno, o di quelli paralleli che divergeranno, tenendo costantemente viva l’attesa di un svolta, di un nuovo arrivo, di una rivelazione. E, non a caso, questo film le strade dell’amore le percorre tutte, andando incontro ad ogni possibile ostacolo, incespicando nella morte apparente come in Romeo e Giulietta, e in quella vera come in Otello, con un finale che congiunge drammaticamente gli opposti come ne La bella e la bestia, e riunisce trionfalmente i simili come ne I Promessi Sposi.
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