Regia di Wang Quanan vedi scheda film
Una toccante storia di (stra)ordinaria disperazione, questa intensa testimonianza sulla disgregazione progressiva di una popolazione (che è anche la rappresentazione di una “condizione” disumanizzata dell’esistenza). Giustamente premiato con l’Orso d’oro all’ultimo Festival di Berlino e adesso (una volta tanto con assoluta tempestività) in distribuzione sui nostri schermi, “Il matrimonio di Tuya” è il racconto semplice e drammatico di una “precarietà” incontrovertibile e della caparbia lotta per la sopravvivenza di una insolita e titanica figura femminile (per la forza interiore e la coraggiosa determinazione, nonostante tutto) alla quale dà volto e corpo con totale e sofferta aderenza, l’ottima Nan Yu, l’unica attrice professionista impegnata nella realizzazione di questo affresco doloroso e penetrante che vuole essere soprattutto il “pretesto” e il veicolo per un accorato atto di denuncia “per non dimenticare” e tenere viva l’attenzione su un problema attualissimo e poco conosciuto, come si evince proprio da alcune delle dichiarazioni del regista rilasciate durante la Berlinale: “ Nei luoghi che ho cercato di raccontare attraverso il film, vivono popolazioni in condizioni di forte povertà. Non è semplice immaginarlo, soprattutto oggi viste le profonde trasformazioni sociali, economiche e politiche che stanno portando la Cina sempre più vicina all’occidente. In tutto questo, chi ne fa le spese sono le persone che vogliono mantenere intatto il loro patrimonio culturale e sociale. Il governo ovviamente e per i suoi fini prioritari, spinge le popolazioni a trasferirsi verso le grandi città fregandosene delle radici e degli sconvolgimenti, ma nonostante la pressione e le condizioni oggettivamente proibitive di una vita fatta di privazioni e di sacrifici indicibili, per fortuna parte di queste popolazioni resistono e rimangono ancorate a difendere la loro unicità”. Si tratta dunque in un certo senso di una “storicizzazione” politica di un “evento “ di sconvolgimento sociale che non ha uguali, ma anche della evidenziazione di una condizione femminile contemporanea, che convive a fatica con il progresso e l’emancipazione, elementi questi che rendono quasi paradossali e “incredibili” queste contraddizioni abnormi e insostenibili fra loro. Il tutto finisce allora per diventare l’emblematica esposizione di uno status di “indigenza” purtroppo ancora presente e radicato in molte parti del mondo attuale e con il quale prima o poi saremo costretti a dover fare i conti, che è anche la rappresentazione elegiaca (per la verità pochissimo nostalgica e necessariamente fortemente dolorosa e partecipata, quasi documentaristica nella secchezza di alcune sequenze) di un mondo – la Mongolia – e di un popolo destinato a scomparire e che si sta progressivamente inaridendo, soffocato dal nuovo corso di presunta emancipazione a imitazione capitalistica, che sta devastando il pensiero, il mondo e le tradizioni arcaiche della Cina. “Il matrimonio di Tuya” è dunque, proprio per questa sua valenza particolarissima, un film da vedere e “valutare” insieme a “Still Life”, ma anche al sorprendente “La stella che non c’è” del nostro Amelio che ha saputo cogliere pienamente le contraddizioni (e le preoccupazioni) di questa evoluzione estemporanea e progressiva davvero sconvolgente. La comparazione integrata di queste tre opere è a mio avviso fondamentale per comprendere appieno la portata delle devastazioni e del pericolo che disegnano l’apocalittica visione di un futuro “svuotato” e “incompatibile” ormai davvero a portata di mano e di sguardo. Per tornare al titolo che è oggetto della presente disquisizione, possiamo dire comunque che la protagonista del film di Wang Quan An è una fiera e forte donna, una delle tante “figure resistenti” a sue spese e pericolo, che animano e sostengono il mantenimento dello status quo nelle sterminate, inospitali, poverissime province mongole della Cina. E’ dentro questo mondo anacronistico (quasi “preistorico”) che “cerca” di continuare a vivere ormai senza più prospettive e futuro, mantenendo attiva la quotidianità di matrice contadina, allevando pecore e miseria. E’ su di lei infatti che ricade ormai il peso totale della sopravvivenza: è sposata e ha due figli ancora in tenera età, ma suo marito è rimasto invalido - totalmente inabile - cercando di costruire un pozzo per “tentare di trovare l’acqua”, ed è dunque la donna che deve provvedere a tutto, sfiancata dalla fatica, consumando le sue giornate e la sua vita tra il pascolo del gregge in un paesaggio sempre più desertico e impervio e le necessarie faccende di casa. Ma anche le sue condizioni di salute cominciano a declinare, e allora utilizzando le leggi e le convenzioni della sua terra, decide di “simulare” un divorzio per mettersi alla ricerca di un nuovo uomo che la sposi e che sia disponibile a sostenere il peso della sua piccola comunità, compreso l’ex marito che senza il suo appoggio non avrebbe più “alcuna speranza o possibilità”. Si apre così una sorta di pellegrinaggio di possibili pretendenti (nuovi ricchi, vecchi compagni di scuola, innamorati deferenti alla ricerca dell’occasione, ambiziosi uomini del “nuovo corso”) spesso sufficientemente danarosi per risolvere il problema, ma non sempre adeguatamente disponibili con il cuore e le aperture mentali per avventurarsi nell’impresa. Il racconto di questa “ricerca” di un meno precario equilibrio che trovi il suo centro di gravità in una ritrovata figura maschile che sia capace di riacquisire il peso delle responsabilità, riconsegnando una qualche piccola speranza nel futuro, è fatto con assoluta sobrietà, evitando cioè di cadere nella “ricattatorietà” del facile sentimentalismo o negli stereotipi (sempre in agguato) della donna oppressa e carica di problemi. C’è qualche evidente squilibrio nella progressione degli avvenimenti, forse un eccesso di ridondanza estetizzante in certi passaggi e raffigurazioni, ma la forma “tiene”, è solida e coinvolgente, e queste leggere screpolature non riescono ad intaccare il risultato complessivo, che si regge soprattutto sullo straordinario ritratto di questa donna a suo modo “volitiva” e indipendente ma in fondo anche fragile, e sulle sue difficili scelte che non potranno che renderla sconfortata e dolorante. “Il Matrimonio di Tuya” – una pellicola da non perdere assolutamente - è insomma una commedia al femminile amaramente pervasa di rimpianti e di delusioni, ma non di rassegnazione, nonostante la sconsolata sequenza di chiusura che vuole simboleggiare più che una possibile resa, una inevitabile, ma tristissima presa di coscienza.
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