Regia di David Ayer vedi scheda film
Già mi avevano ben poco entusiasmato “Training day” e “Dark Blue – Indagini sporche” di cui David Ayer aveva scritto solo la sceneggiatura. Questo “Harsh times”, suo debutto alla regia, inizia con un incubo del suo protagonista, reduce dell’Iraq (“Uno schifo allucinante” si sente dire, brutta premonizione) e continua come un incubo per lo spettatore. Mi viene da pensare che i migliori lavori di Ayer siano i giocattoloni “Fast & Furious” e “S.W.A.T.”. Quando infatti si prende troppo sul serio i risultati sono irritanti, gonfi e maldestri. Qui peraltro la materia è altamente autobiografica, basandosi molto sulle esperienze personali del regista stesso, cresciuto a South Central, arruolatosi nella marina (e infatti ha scritto anche “U-571”) e, al suo ritorno, testimone ravvicinato, con il suo migliore amico, del diffondersi della microcriminalità nel suo quartiere. Purtroppo “Harsh times” è perennemente sopra le righe e troppo urlato, preconfezionato nell’arrembante ma innocuo procedere verso l’inevitabile e ultra annunciata tragedia finale, scontato nelle trite riflessioni sui reduci che, tornati a casa, sono ridotti a macchine di morte e come tali vengono sfruttati anche dai federali (vengono i brividi quando, nel proporre al protagonista Jim un lavoro per il governo in Colombia, gli vengono mostrate le foto di arabi da lui massacrati senza pietà con il compiaciuto commento “Potrebbe lavorare in una macelleria!” ed è altrettanto inquietante seppure non nuova l’idea che “La testa calda più pazza che conosco sarà un federale!”, mentre appare molto calzante il consiglio che dà al protagonista l’amico Toussant di chiedere il risarcimento all’esercito per i danni subiti), dozzinale e ovvio nella definizione dei personaggi così come nella dinamica psicologica tra i due protagonisti (con tanto di scelta morale finale abbastanza goffa e forzata), ingenuo e ripetitivo negli sviluppi narrativi, di maniera nella rabbia infuocata e nella furiosa violenza che vorrebbe trasmettere, fasullo e sterile nel suo pessimismo di fondo, meccanico e risaputo nella rozza e superficiale descrizione ambientale. In più è penalizzato da un Christian Bale, anche produttore e ormai specializzatosi in ruoli estremi dopo “American psycho” e l’ottimo “L’uomo senza sonno” dove era davvero superlativo, semplicemente INSOPPORTABILE (non me ne vogliano i suoi fan) con la sua recitazione sempre eccitata e fuori controllo (molto meglio il partner Freddy Rodriguez, già visto nella serie cult “Six feet under”, analogamente a quanto accadeva in “Training day” dove Ethan Hawke, preferito proprio a Bale per il ruolo, si mangiava in un sol boccone Denzel Washington). Interessa poco o nulla dello stanco girovagare per le caldissime strade di Los Angeles degli amici fraterni Jim, autodefinitosi “soldato dell’Apocalisse”, con l’aspirazione ad entrare in polizia (“Sarò una super recluta. Riderò dell’addestramento della polizia di Los Angeles!”) ed il sogno di sposare la sua ragazza in Messico ma completamente fuori di testa (“Non ragiono. La mia vita è tutta un bordello!” dice di sé in un raro momento di lucidità) e Mike, fannullone alla perenne e vana ricerca di un lavoro, che vive sulle spalle della fidanzata Sylvia (piccola parte per la casalinga disperata Eva Longoria), stanca delle sue menzogne ed inganni (“Le tue parole valgono meno della merda”) e non più disposta ad accettare il suo continuo cazzeggio con il pericoloso amico. Tra litri di birra, canne, accese discussioni in auto, chiacchiere con amici appena usciti di galera, risse e botte con spacciatori, furti di pistole preziose o di chili di droga da piazzare, viaggi in Messico, gole sgozzate, finti colloqui di lavoro, fermi della polizia e costante desiderio di scopate, Ayer che per realizzare il film ha dovuto chiedere un mutuo ipotecando la casa, non dice niente di nuovo, ma soprattutto lo dice male. Accolto insolitamente bene dalla critica ma completamente ignorato dal pubblico è la classica bufala. Mi sembra quanto meno azzardato chiamare in causa per robetta di così poco spessore “Taxi driver” e l’interpretazione sovrumana di Bob De Niro. Piuttosto mi viene in mente il ben più modesto “Home of the brave” di Irvin Winkler: “Harsh times” è meno patinato e retorico di quello ma altrettanto vuoto, scolastico e superfluo.
Voto: 4
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