Regia di Gianluca Maria Tavarelli vedi scheda film
Vicende intrecciate di vari personaggi nella Roma contemporanea: uomini e donne devastati dalla solitudine o da amori finiti male, malati veri e immaginari, semplici falliti. I personaggi sono decisamente troppi: alcuni si vedono appena e non vengono sviluppati adeguatamente (che fine fa Francesca Inaudi dopo aver litigato con Gassman nella seconda scena?). Dopo Un amore, Tavarelli continua a citare poesie di Saba (lì Un ricordo, qui Quando il pensiero) e conferma la sua predilezione per un minimalismo deprimente (esemplari le sedute di gruppo dalla psicoterapeuta) ma con spiraglio di luce alla fine. Conferma altresì di avere qualche problema con l’organizzazione temporale della storia: piazzare in apertura un flashforward con un uomo che si getta dal ponte (evento peraltro non decisivo, come prevedibile) per sfidare lo spettatore a indovinare chi è, mi sembra un giochino un po’ futile. Però il film non se la tira troppo e, tutto sommato, risulta abbastanza gradevole. Semmai si presta a qualche considerazione generale sul tipico cinema italiano dei quarantenni in crisi (che dieci anni fa erano trentenni in crisi, e che fra dieci anni saranno cinquantenni in crisi): un titolo del 1990 come L’aria serena dell’ovest non si limitava a guardarsi l’ombelico, ma sapeva inquadrare il disorientamento generazionale all’interno di un contesto più ampio; oggi sembra essersi realizzato definitivamente quel rinchiudersi nel proprio privato che il finale del film di Soldini preannunciava. Due immagini da ricordare: un uomo che distrugge le lettere e le foto conservate nell’arco di tanti anni, e che racchiudono il senso della sua vita; una bambina che pazientemente raccoglie i pezzi e li incolla insieme (passaggio di testimone che per me è la conclusione ideale del film, più significativa di quella con Pietro che “smette di respirare”).
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