Regia di Don Siegel vedi scheda film
La sporcizia morale e sociale di cui Harry Callahan vuole sbarazzarsi si trova ovunque intorno a lui. Nelle strade come negli uffici della polizia. Dirty Harry ha questo soprannome non perché usi un linguaggio razzista o si ritrovi a spiare una coppia fuori da una finestra, la vera ragione è che gli tocca sempre il lavoro sporco, quello che nessun altro vuole fare. Dirty Harry è un personaggio con un ferreo codice d’onore, impiegabile come la canna della sua .44 Magnum. Il fatto che i crimini nel film vengano commessi da una banda di neri (la rapina iniziale) e da uno psicopatico dalle sembianze di un pacifista non fa altro che ribaltare i valori etici di quel periodo, le lotte per i diritti umani, le enormi manifestazioni contro la guerra. I metodi usati da Callahan sono estremi nel loro appartenere ad un sistema di giudizio personale: la scena della tortura splendidamente sfumata da una ripresa aerea, l’esecuzione finale in cui non è più il poliziotto a credere alla giustizia ma l’uomo dietro quel distintivo. Harry Callahan sembra non avere una vita privata, quel poco che sappiamo di lui riguarda la profonda ferita causata dalla perdita della moglie, forse la vera ragione della sua glaciale freddezza e apparente assenza di sentimenti. Come fosse un samurai questo personaggio è in totale controllo di se stesso attraverso le proprie regole di comportamento. Nello sguardo di Clint Eastwood si può ogni volta percepire l’esatto momento in cui la rabbia dell’ispettore comincia ad essere innescata, senza mai esplodere, perché sono i gesti a veicolarla dall’interno all’esterno e a trasformarla in azioni. Invece di implodere Dirty Harry agisce direttamente sul mondo intorno a lui, nell’unico modo in cui è capace di esprimersi, attraverso la violenza, fisica quanto verbale.
Don Siegel costruisce una ragnatela di spazi metropolitani che alternano ampie visioni urbane ad elementi architettonici che sfiorano l’astrattismo, funk music a tessere le strategie sonore e solitudini umane a riempire lo sguardo, perché è nel creare figure che rimangano nell’immaginazione dello spettatore la sfida ultima di ogni regista.
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