Regia di Mira Nair vedi scheda film
L’India dei monsoni, dei “matrimoni monsonici”, degli uomini e delle donne e di quest’ultime sottomesse. Nient’altro che una riproposizione di tutto questo, con l’aggiunta di uno sguardo più filo-americano e quindi di una produzione anch’essa, monsonicamente americana, è il nuovo film della regista di Mira Nair, Il destino nel nome. Per dirlo con le parole di Silvestri, un fritto di paranza.
La storia è quella di Gogol, il cui nome è un omaggio allo scrittore russo, di cui il padre è un grande fan. Gogol è nato negli Stati Uniti, da genitori indiani, vive un’esistenza tipicamente da uomo occidentale, fidanzandosi con una bella e ricca ragazza bionda che nulla sa dell’India. Dopo la morte del padre, Gogol però riscopre le tradizioni e si sposa con una coetanea bengalese. Ma anche questa esperienza finirà male.
Pur riconoscendo il talento della regista, le cui inquadrature risultano sempre di eccezionale bellezza e perfezione, merito anche di una fotografia che risulta determinante in ogni film della Nair, non si può negare che, specie in questo film, è palese la retorica che la stessa regista ci mette di suo, in ogni tema trattato: si va dall’integrazione etnica, l’immigrazione, la ricerca della propria identità, al disadattamento sociale, con uomini e donne sofferenti, molte volte non sono chiare neanche le motivazioni.
Se si pensa che la regista è reduce di un altro flop, La fiera delle vanità, evidentemente possiamo credere che in realtà ciò che ormai le manca è proprio la capacità di non essere prevedibile, alla maniera di uno dei suoi primi e interessanti lavori, Kamasutra. E’ pur vero che Il destino nel nome è tratto dal romanzo di Jhumpa Lahiri, la cui struttura è altrettanto banale, alla pari della sceneggiatura del film, questo in più ha di suo una certa approssimazione nella gestione della narrazione. Mira Nair, come i nostri Crialese e Muccino, immagina l’America come la terra promessa e delle promesse (scrive in una lettera, a proposito di suo figlio: “Non voglio far crescere Gogol in questo paese triste”), ma che in genere non promette niente, specie se si fa parte di quei cosiddetti mondi “primo, secondo…”, quelli che Bush, nonostante i G8-G9 e i G100, non sarà mai disposto a riconoscere come mondi uguali in dignità ed altro. Ecco, quindi che tutto, nel film diventa surreale.
Finanche i nomi dei personaggi, Jhumpa, Gogol, Ashima… sembrano gli stessi nomi utilizzati per i personaggi dei cartoni animati e le canzoni che alcuni di essi cantano nel film, sembrano le stesse di Cristina D’Avena. Forse per mantenere il tono delle “favole” di cartone.
Belle, invece le musiche di Nitin Sawhney, che non guastano al confronto con le altre utilizzate per sottolineare il divario fra due generazioni, quelle dei Pearl Jam.
Insopportabile tutta la seconda parte del film, perché Nair gioca al gioco della corda, ma cercando in tutti i modi di tirare le lacrime e il più delle volte riuscendoci. Qualche spettatore lo fa per l’emozione. Molti altri perché non riescono più a starci sul sedile, per lo più scomodo, di una sala buia per due e ore e passa, mentre si consumo il “fritto di paranza”.
Giancarlo Visitilli
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