Regia di Denys Arcand vedi scheda film
E’ un mondo difficile quello di Arcand. C’è colei che la notte non dorme perché la sua amica ha sempre le mani nel suo pigiama. L’apparato maschile ch’è programmato per eiaculare ogni tre giorni, col pegno di un tumore alla prostata. C’è persino chi ha l’arduo compito di dedicarsi all’osservatorio dell’ano. Mentre il cinema è deriso e va alla deriva, con gli uomini che considerano Il Signore degli anelli il capolavoro dell’era moderna.
Vita-morte, riso amaro, beffa ed ironia. Torna il regista canadese, Denys Arcand, che più di ogni altro, in questi ultimi anni, continua a portare sul grande schermo storie non sempre e affatto leggere. Con L’età barbarica egli conclude la sua trilogia sulle contraddizioni della società moderna, dopo Il declino dell’impero americano (1986) e Le invasioni barbariche (2003). Bello il titolo originale, L’Âge des ténèbres, che ha più senso, come accade sempre, rispetto a quello tutto italiano, che vede nel termine “barbaro” utilizzato per identificare quell’età in cui ognuno tira le somme della propria vita o provvede qualcun Altro a farlo per lui. Oppure bisogna accontentarsi di sognare una vita a parte. In fondo, come ogni grande poeta, da Dante a Leopardi, passando per tutti quelli che hanno idealizzato, immaginato, senza alcuna corrispondenza, un amore, anche Jean Marc, un impiegato del Ministero del Quebec presso l’Ufficio reclami, nonostante sia sposato da anni con un’agente immobiliare ossessionata dalla carriera e abbia due figlie adolescenti che quasi non si accorgono di lui, non ha altro rifugio che il sogno. Donne bellissime, che lo desiderano e si appassionano alla sua virilità di uomo-imperatore o di grande scrittore. E’ solo il sogno a permettergli un’esistenza accettabile, abitato da tanti fantasmi. Il confine tra sogno e realtà condurrà Jean Marc ad una nuova consapevolezza di sé.
Tutto è degno della pittura surrealista, dai luoghi: il ministero-stadio, l’ufficio-loculo, ecc; fino ai personaggi tutti: impiegati-automi e donne sull’orlo di una crisi di nervi. Sono questi i “barbari” attraverso cui Arcand esorcizza l’umanità alle prese con la sua regressione, resa schiava da quegli stessi miti che lei stessa s’è inventata per credere nell’illusione della scissione fra civiltà e barbarie. E’ proprio quando ci si rende consapevoli che Arcand, al modo di Aristotele, ci fa avvertire che la vita può essere “un sogno fatto da svegli”.
Arcand, in questo terzo ed ultimo film con cui conclude la trilogia, affonda maggiormente il coltello nella piaga ormai non più cicatrizzabile dell’uomo moderno. Anzi, se nei due film precedenti, tutti in modo corale partecipavano all’illusione della vita, ora stigmatizza un mondo a parte, solo e soltanto per Jean Marc, combattuto nel limbo della vita-morte-sogno-realtà, in cui il suo sogno si fa incubo per l’intera società. E’ evidente che buona parte della riuscita del film la sia deve ad un personaggio-fantoccio-attore come Marc Labrèche, apparentemente impassibile e stralunato.
E se alla fine decidessimo di scegliere ognuno l’immagine di una natura morta che rappresenti la nostra vita passata, non sarebbe come guardare un fotogramma della nostra vita ancora da vivi? Così Arcand, per mezzo di una tela di Cèzanne, alla fine affida il ruolo salvifico all’Arte. L’unica che può salvarci.
Giancarlo Visitilli
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