Regia di Cristian Mungiu vedi scheda film
Nella Bucarest del 1987, la regolarità delle rigide regole della dittatura contrastano con l’irregolarità di chi, per via di un bimbo in grembo, vive il suo irregolare ciclo vitale. In poche battute, è tutto qui il senso del film Palma d’Oro a Cannes 2006, del regista rumeno Cristian Mungiu, al suo terzo lungometraggio. 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni si inserisce nel progetto “Tales from the Golden Age”, una trilogia che intende proporre l’epoca che precede la fine del comunismo in Romania, passando attraverso piccole storie individuali.
La storia che il film racconta ha inizio due anni prima della caduta del comunismo, quando in Romania l'aborto è ancora illegale e punibile con molti anni di carcere sia per chi lo pratica che per chi lo riceve. La pena s’inasprisce se la donna ha superato i cinque mesi di gravidanza, perché a quel punto l'accusa da aborto passa ad omicidio.
Infatti, poco manca a Gabita, ch’è incinta appunto di quattro mesi, tre settimane e due giorni. Aiutata dalla compagna, Otilia, con cui divide la stanza nella casa dello studente di Bucarest, Gabita cerca di organizzare l’operazione clandestina, mediante la complicità di un personaggio losco, Mr. Bebe, ovvero l’uomo che, sotto pagamento in soldi e in natura, fa lo stesso lavoro di Vera Drake del film vincitore del Leone d’Oro a Venezia (2004).
La differenza tra il film di Mike Leigh e quello di Mungiu sta nella quasi favolizzazione da parte dell’uno, già nell’arte del racconto, e la crudezza dell’altro, capace di entrare con la lama fino in fondo alle ferite dell’animo umano, ma senza coinvolgere nessun sentimento. Tutto si dipana tra chi deve lasciare, eliminare, “far scomparire” qualcosa e chi invece è costretta a far entrare, con la forza e la sofferenza, nella propria carne e nella propria intimità ciò che si vorrebbe altrimenti gettato a pedate fuori dalla propria vita. Entrambe le amiche vivono la sofferenza consapevole, ch’è peggiore di quella che s’insinua lentamente, ma almeno ti coinvolge nel combatterla. No, Gabita e Otilia sono due feroci combattenti, certe di possedere quella forza capace di abbattere di lì a poco anche le più feroci muraglie ideologiche e non solo. Perciò i 4 mesi, le tre settimane e i due giorni potremmo pensarli come quelli antecedenti a quell’aborto compiuto da quella parte di umanità che viveva nei paesi dell’Est, che magari oggi vive la precarietà della ricostruzione materiale e interiore, ma che, in massima parte soffre. Perché ogni aborto, spontaneo o voluto che sia, desta sempre dolore.
Il talento del regista è consistito anche nell’uso della macchina da presa, quasi esclusivamente con camera a mano, con lunghi piani sequenza, terminanti quasi sempre di fronte a dei muri di case labirintiche o sulle spalle di colei che sta per abbattersi e scaricare il peso del feto. Peccato, invece, l’uso della sequenza shock in cui il problema, finora ad allora rimasto intelligentemente intangibile, si materializza e il feto espulso da Gabita viene mostrato. Tuttavia, la Palma d’Oro è meritatissima anche perché si tratta di un film costato solo 800,000 dollari, tra l’altro girato in sole due settimane.
Tutte e due le attrici sono perfette nei loro ruoli, tant’è che Anamaria Marinca nei panni di Otilia, è l’attrice che vedremo prossimamente anche in Youth Without You, l’opera che segna il ritorno di Francis Ford Coppola dietro la macchina da presa dopo 10 anni. Più volte, sia per Marinca, sia per la Vasiliu è difficile immaginare che esse stiano recitando, specie nel bellissimo finale, con le due protagoniste a tavola ed una di loro che ci guarda negli occhi (guardando in macchina). Stacco improvviso e titoli di coda. Con almeno la consapevolezza reale che la Romania di Ceausescu è stata abortita.
Giancarlo Visitilli
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