Regia di Béla Tarr vedi scheda film
Tarr si confronta con il genere noir confermando la sua inarrivabile maestria.
I personaggi si muovono all'interno di elaboratissimi piani sequenza geometrici e privi di qualsivoglia casualità (ogni taglio di inquadratura è perfetto e ogni granello di polvere è studiato e al suo posto) e dove è il suono a dettare il tempo con una ripetitività di battiti (cardiaci) e a ridefinire di volta in volta gli spazi scenici (creando ad esempio una sorprendente armonia strutturale nei passaggi tra interno ed esterno). Perché di scena si tratta: l'impeccabile ambientazione crea quasi un'unità di luogo, con il faro quale centro dell'uragano attorno al quale ruotano vorticosamente glii attori della vicenda e le diramazioni sono sempre stanze confinanti.
Noi siamo calati dal regista all'interno della vicenda come spettatori disinformati sui fatti che brancolano nell'immagine dietro alla telecamera alla ricerca di indizi. Spesso la costruzione gioca a nascondere e a svelare successivamente (più di una volta l'inquadratura parte dalla schiena del protagonista e solo un successivo movimento di camera ci rivela davanti a lui l'interlocutore. Per non parlare della scena del capanno, dove veniamo letteralmente chiusi fuori).
Il distacco morale di quanto mostrato non (ci) offre appigli salvo quando nel finale la pietà entra sotto forma di luce a celare pudicamente il dolore dell'unica vera vittima della vicenda.
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