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L'uomo di Londra

Regia di Béla Tarr vedi scheda film

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La recensione su L'uomo di Londra

di Peppe Comune
8 stelle

Maloin (Miroslav Krobot) lavora come manovratore in una stazione portuale. Una notte, mentre è di turno, assiste dalla sua postazione ad una lite tra due uomini che si contendono una valigia. La lite sfocia in omicidio, la valigia termina in acqua  e l'assassino (Jànos Derzsi) fugge via. Maloin scende a recuperare la valigia e scopre che è piena di soldi. Potrebbe trattarsi di un isperato colpo di fortuna, e invece si ritrova stritolato in un intricata indagine di polizia portata avanti dal serafico Morrison (Istvan Lenart). L'unico posto in cui sembra trovarsi a suo agio è il bar del porto gestito da Tapster (Gyula Pauer), con il quale intrattiene interminabili partite a scacchi. Perchè a casa è costretto a dover gestire i difficili rapporti con la moglie Camélia (Tilda Swinton) e la figlia Henriette (Erica Bok).

 

 

La trama probabilmente, sempre questo mi viene da riflettere al cospetto di un film di Bela Tarr, constatare cioè l'assoluto dominio della regia, il fatto che la progressione logica degli eventi che si rappresentano, l'occupazione dello spazio e il trascorrere del tempo da parte degli attori, tutti quegli elementi, insomma, che nel loro rapporto dialettico contribuiscono a dare unità al tutto e a qualificare l'esatta portata di un opera, rimangono fattori, si importanti, ma resi marginali nell'economia dell'insieme da una forma cinema che è attraverso la "carnalità" di un'originale  tecnica di ripresa che rende chiara la sua precisa identità speculativa. "Luomo di Londra" (tratto dal romanzo omonimo di George Simenon) ha tutti gli ingredienti del noir e potrebbe anche andar bene così, potrebbero anche bastarci le vicende esistenziali di Maloin, la sua speranza di riscatto economico e la conseguente, inevitabile, regressione, quindi ragionare sul modo particolare di rapportarsi al genere, sui punti di contatto con la matrice spiccatamente esistenzialista del cinema di un Jena-Pierre Melville per sempio, o di quella essenzialità stilistica decisamente antispettacolare che lo allontana, invece, da un certo cinema che è molto di casa negli Stati Uniti.  Ma il fatto è che tutta la storia in se , in tutto il suo procedere per fasi canoniche, diventa un qualcosa di evanescente rispetto all'ineluttabilità di un destino già segnato, un destino che è qualificato nella sua incipiente presenza da un modo di concepire la messinscena fatta di lenti movimenti di macchina, piani sequenza interminabili, campi fissi a ripetizione, tempi del racconto dilatati oltremisura e una luce in bianco e nero che emana un fascino enigmatico. Detto altrimenti, si tratta di un architettura poetica che tende a squarciare di luce riflessa l'oggetto che si sta riprendendo con la macchina da presa piuttosto che limitarsi a rappresentarlo per quello che è, a sostare lungamente sull' evidente insignificanza delle cose che si inquadrano per ricondurci proprio alla loro essenziale funzione originaria nel quadro necessario del mondo. Ciò che osserviamo nella lunga sequenza in soggettiva che apre il film, è la tessitura di un quadro dove Maloin entra a prendere proprio il posto che ci si aspetta che egli prenda. Da quella posizione posta in alto, sopra le navi che arrivano al porto e le carrozze dei treni merce, una posizione che Bela Tarr si premunisce subito di rendere privilegiata per come ce la mostra concedersi all'ampiezza senza limiti del mare, è facile capire come si sono potuti svolgere i fatti e che sviluppi hanno potuto seguire. Maloin non è la persona fortunata che si è trovata al posto giusto al momento giusto, ma semplicemente l'uomo che non poteva non trovarsi la. Quindi segue un lento pedinamento dentro la vita dissestata dell'uomo e dentro un'illusia rivincita contro il fato. Cosa rappresentano in mano a Bela Tarr il bar del porto dove ci sono sempre gli stessi avventori che fanno sempre le stesse cose, le partite a scacchi tra Maloin e il gestore del bar, le poche parole scambiate con la moglie e la figlia, il passo incerto dell'assassino, l'attegiamento sicuro di Morrison (è lui "l'uomo di Londra"), quella luce senza tempo, se non la lenta liturgia di un mondo in perenne attesa dell'inevitabile. In definitiva, come scrive acutamente "ed wood" (alla cui bella recensione vi rimando), Bela Tarr è "riuscito a rendere, con il solo espediente formale, la sostanza di un fato che ha già preparato ogni dettaglio per rendere i personaggi delle mere, impotenti, marionette". Con il cinema di Bela Tarr noi tutti veniamo resi partecipi di un' affascinante e misteriosa poetica dell'attesa.

 

 

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