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L'uomo di Londra

Regia di Béla Tarr vedi scheda film

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La recensione su L'uomo di Londra

di EightAndHalf
6 stelle

Più che in altri film, in L'uomo di Londra Béla Tarr ha paura del buio, quello della notte spezzata da luci fisse e freddamente bianche, fasci di luce "visiva" che si specchiano su un mare che da subito diventa tomba. Tarr ha paura di quei momenti neri e ciechi dovuti alle intersezioni delle vetrate da cui lui come Maloin osserva la vita sospesa del mondo, mentre scivola da un punto all'altro di un porto e di una stazione, dalla cima di una torretta. Maloin è un po' l'anziano di Satantango, che osservava con distacco il mondo dalla sua finestra, attraverso una vetrata apparentemente divisoria, che dovrebbe forse permettere ai protagonisti (di entrambi i film) di escludersi da una condizione esistenziale abietta e meschina. Maloin è infatti testimone di un omicidio, lento e improvviso, nel bel mezzo di quelle banchine ieraticamente traversate da anime purganti in direzione Buio Nulla sul misterioso treno, come se quel piccolo pezzo di umanità e di terra fosse un intervallo fra le tenebre, illuminato dalle poche luci e dallo sguardo di Maloin, e come se quell'intervallo non potesse essere purificato, nonostante sia privo di buio, perché macchiato dal Male umano, qui più che mai riflesso negli uomini. L'oscurità non colpisce meno i protagonisti di giorno, quando una calma terrificante assorbe la latente vitalità degli esseri umani, e dentro un bar (e un bar c'è sempre in Béla Tarr) questi ultimi possono confrontarsi e prendere decisioni (ubriacandosi o ancora ballando), come se il libero arbitrio cambiasse qualcosa. Lo spettro dell'uomo di Londra, infatti, rimane costante, si aggira come il Buio Nulla, offre laute e superflue ricompense ai disperati di questo mondo. Denaro e sangue, binomio tipico del genere noir, divengono qui significanti del Male riflesso, e anche atto ultimo e paradossale di coerenza esistenziale, affinché l'uomo possa, in uno slancio disperato, forse comprendere la natura maligna di quell'oscurità. Ma lasciarsi intendere come maligna sarebbe una (povera) consolazione, l'attacco più infido è l'indifferenza.
Le voci si diffondono e raccontano una storia raramente illustrata, che sta nella mente e nelle azioni di Maloin ma che non prende mai il sopravvento, non in impossibili sprazzi di azione ma in sussurranti spunti visivi che non ripetano le visioni del Tarr più tardo. Non ci si può aspettare forse qualcosa di nuovo, dal regista ungherese, visto che l'uomo da Perdizione in poi non è più cambiato? Ci si può aspettare l'impianto sottilmente spettacolare delle Armonie di Werckmeister, ci si può aspettare la sopraggiungente apocalisse silenziosa di Il cavallo di Torino, ci si può aspettare la lenta perdita del senso di Satantango (di cui qui si riconoscono pure alcuni attori, oltre a Erika Bòk), ma nella storia che forse era la più vicina alla dimensione pratica dell'essere umano Tarr si ripete, si muove senza ipnotizzare, prende il pretesto metaregistico (già pensato in Satantango) e ammette l'impotenza dello sguardo di fronte al Male che macchia gli sprazzi di luce nel buio, cerca di commuoversi invano di fronte ai relitti umani che errano pressati da un'anima furibonda, prendendoli come fulcri per le sue riprese cadenzate e realizzando rari primi piani evocativi, tenta di aggiungere qualcosa sulla solitudine umana addossandosi e compenetrandosi in quel male di vivere che è visibilmente impaurito del Nulla che rassegna; ma fa presa su ritmi soggettivi e rischia di perdere la sua anima di cantore della morte dello spirito, appiattendo una storia potenzialmente universale. Sembra riuscire più nelle disperate esibizioni di rabbia all'interno della famiglia del protagonista che nella storia in sé, famiglia che è specchio delle anime tormentate e sempre più uniformi e piatte degli esseri umani, e setaccia gli sguardi perduti per far perdere pure noi. Il suo immergersi però nel buio ci fa rimanere a galla, in superficie, forse nell'attesa del tuffo di testa nell'inerzia, che osserviamo da lontano e basta. Che sia forse una distanza voluta e dichiaratamente soffocante? La realtà stratificata del film (osservati, osservante, mistione delle due dimensioni) non accoglie lo spettatore e si uniforma nell'oggetto osservato, in un film, e non ci abbraccia più straziandoci. Tarr rischia di perdersi da solo.

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