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L'uomo di Londra

Regia di Béla Tarr vedi scheda film

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La recensione su L'uomo di Londra

di ed wood
9 stelle

Bela Tarr, uno dei maggiori registi viventi (ahimè ritiratosi lo scorso anno), compie una memorabile incursione nel noir. Lontano dalle desolate lande magiare, affronta una sceneggiatura palesemente stereotipata, nonostante la nobile fonte (Simenon), e realizza quello che si dice "un film di regia". Nell'esporre, con tutta la calma meticolosa tipica del suo cinema, la più classica del trame "nere" (vita miserabile, occasione di riscatto, violazione della legge, senso di colpa, resa dei conti con un destino ineluttabile), l'ungherese compone piani-sequenza che brillano di luce propria, capaci come sono di creare forme dalla realtà, di ricavare senso ed emozioni da volti e luoghi, di sviscerare tridimensionalmente corpi ed ambienti, di rendere la tragicità della condizione umana in un Tempo che è già scolpito e che la mdp si limita a ripassare: in questo film, così geometrico e concentrico rispetto ad altri, più rapsodici ed asimmetrici, dello stesso autore, una cinepresa onniscente conosce in partenza ogni movimento dei personaggi, come ogni cambio di illuminazione, anticipa ogni mossa in modo da incontrare al posto giusto nel momento giusto il soggetto dell'inquadratura. Siamo agli antipodi del cinema "casuale" della scuola rosselliniana, così influente ancora oggi. Credo che nessun altro regista sia mai riuscito a rendere, con il solo espediente formale, la sostanza di un fato che ha già preparato ogni dettaglio per rendere i personaggi delle mere, impotenti marionette. Nel cinema di Tarr, anche in questa variante sui generis, si affacciano i nobili modelli di Murnau (per l'uso dello spazio in profondità di campo, per i complessi movimenti di macchina, per le ascendenze espressioniste), Bresson (per l'esistenzialismo di fondo, la laconicità dello sguardo, la trasparenza con cui viene svelato l'invisibile potere corruttore del denaro), Antonioni (per quei piani-sequenza impossibili, come anelli di Moebius, sul vuoto che ci circonda e sul disperato bisogno di riempirlo). Obbligati, automatici, i riferimenti estetici al naturalismo francese (o realismo poetico) degli anni 30, così come risultano evidenti alcune chiare auto-citazioni (il carrello in avanti lungo un viale a pedinare di spalle un personaggio; la figlia adolescente sottomessa; la vecchia megera al bar, con fisarmoniche ossessive e pantomime demenziali). Manca, e non deve sorprendere, Tarkovskij, considerato un modello per tutto il cinema moderno dell'Europa orientale. Ma come detto in precedenza, non c'è nessun "Tempo da scolpire" nell'universo poetico di Bela Tarr, almeno in quest'opera: è tutto già definito, tutto levigato, è una scultura liscia, traslucida, che si può accarezzare quanto si vuole, senza alcuna possibilità di modificarla. Al termine di questo film, resta solo un quesito aperto: chi ha recitato meglio la sua parte, Istvan Lenart o Tilda Swinton?

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