Regia di Fatih Akin vedi scheda film
Ali (Tuncel Kurtiz), Nejat (Baki Davrak), Yeter (Nursel Köse), Ayten (Nurügl Yesilçay), Lotte (Patrycia Ziolkowska) e Susanne (Hanna Shygulla. Ovvero sei persone e sei vite i cui destini si incrociano in un continuo girovagare tra la Turchia e la Germania. Una storia in cui il caso ci mette più di uno zampino per rendere vana per ognuno la ricerca completa della felicità.
Film bello e solido, di quelli che ti fanno pensare a un romanzo ben scritto (è stato infatti premiato per la miglior sceneggiatura a Cannes) tanta è accurata la caratterizzazione dei personaggi e tanto è un optional l'andamento lineare degli eventi. Dopo il grande Yilmaz Guney, un'altro regista turco capace di restituirci tutta la complessità di un grande paese come la Turchia. I flussi culturali che la percorrono e le contraddizioni di un paese che guarda all'Europa ma mantiene i tratti tipici di un paese mediorientale, sono rappresentati da Akin senza il timore di mostrare aspetti retrivi del suo sistema politico che ancora resistono (la repressione dell'opposizione che vede coinvolta l'attivista Ayten, l'arretratezza del sistema carcerario, il fondamendalismo religioso che coinvolge Yeter). É soprattutto il perenne stato di soggezione economica che la Turchia ha nei confronti della vicina Germania a interessare Fatih Akin, nato e cresciuto ad Amburgo ma mai dimentico delle sue origini turche. La nutrita comunità turca emigrata in Germania è indagata in un modo che, se non lesina fughe verso le esigenze dell'arte, mostra evidenti i segni dell'esperienza diretta dell'autore. Ci sono elementi sufficienti per affermare che un aspetto peculiare che Akin ha impresso alla sua poetica è il fatto che i suoi personaggi hanno sempre il carattere di chi matura nei confronti del suo paese d'origine una sorta di debito morale da dover necessariamente estinguere un giorno o l'altro, di chi sa che la vita può prendere il corso che vuole e può anche regalare tutte la fortuna del mondo ma che la Turchia è sempre li a rappresentare la chiusura di un cerchio. Così come sembra evidente il rapporto di amore e morte tra la Germania e la Turchia come a voler rappresentare, dal punto di vista della comunità turca, l'esserci in un luogo ma il non appartenervi con l'animo, l'antitesi tra la vitalità del corpo nella doverosa conduzione di un'esistenza e l'impossibilità di poter espletare appieno i diritti di cittadinanza. Il protagonista di "Ai confini del paradiso" mi sembra la necessità di ognuno di dare un senso pieno alla propria esistenza attraverso un darsi incondizionato agli altri che è insieme un'andare verso l'ignoto e un tornare al punto di partenza, al luogo d'origine. Mettersi a portare avanti un compito lasciato in sospeso da chi si è trovato nell'impossibilità di portarlo a conclusione, è la costante che tiene tutti i personaggi di questa storia legati a un filo invisibile che consente loro di sfiorarsi, di toccarsi, ma mai di conoscersi abbastanza da determinare la fine di uno scopo che ha assunto per tutti un valore spiccatamente esistenziale. Il film è percorso da continue differenze culturali, di natura politica, religiosa, di lingua, che cercano di risolversi in un'incontro di affetti che il caso si impegna a tenere separati. Bello il finale con Nejat rivolto verso il mare intento ad aspettare il padre e per calmare, per un attimo soltanto forse, il peso della sua inquietitudine.
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