Regia di Damiano Damiani vedi scheda film
Da molto tempo il romanzo di Elsa Morante (scritto nel 1957) è entrato di diritto nella memoria collettiva per come è riuscito a raccontare la formazione giovanile in modo asciutto, a tratti commovente, avvolgente. L’isola di Arturo lo si legge assai nelle scuole e l’accusa che i ragazzi rivolgono più spesso è la lenta narrazione descrittiva che caratterizza specialmente la prima parte, con quel mare placido che circonda l’isola di Procida e che simboleggia il distacco tra il ragazzo e il resto del mondo. Forse ho sempre un po’ sottovalutato il romanzo, lo lessi senza molta convinzione e mi feci affascinare fino ad un certo punto. Se lo rileggessi oggi, probabilmente, vi ci troverei maggiori suggestioni. In questa trasposizione, un po’ sulla scia de I quattrocento colpi, Arturo vede il mare e vi ci proietta una speranza. L’arricchimento truffautiano alla già densissima e ricca narrazione morantians è solo evocativo. Per un semplice motivo: l’adattamento del libro è puramente illustrativo, non scava nell’indagine psicologica di un personaggio raccontato dalla Morante in modo eccellente, si limita a rappresentare la storia in modo secco, privandola della forza necessaria, in maniera decorosa. Damiani non trova la voce: constata. E ai due personaggi più belli del romanzo (escluso Arturo, che và al di là della pagina), ossia la puerile Nunziatella e il tormentato padre del protagonista, non viene restituito il vigore necessario (specie il secondo, nei suoi conflitti interiori dettati dall’omosessualità). Un’occasione mancata.
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