Non si può certo restare indifferenti di fronte a Lo scafandro e la farfalla, vuoi per la tematica trattata, e vuoi per l'alta qualità delle immagini. Tutto sta nell'individuare dove e come l'ars retorica influenzi il senso generale del film e la sua disperante vitalità. Jean Dominique Bauby, Jean-Do pour moi e les amis, colpito da un ictus cerebrale, si risveglia in ospedale dove si ritrova completamente paralizzato salvo l'uso della palpebra di un occhio, in grado di udire, di comprendere, ma non di parlare. Il regista è un artista totale dello scenario cool newyorkese, Julian Schnabel, già prestato al cinema per celebrare platealmente J.M.Basquiat (1996) e adesso alla riprova per tradurre ancora per immagini in movimento la sua sensibilità artistica. Oltre ai discorsi dei vari personaggi si sentirà la voce off dei pensieri di Jean-Do, mentre dalla fessura del suo occhio il regista in soggettiva ricompone la sua visione del mondo. Da quel minuscolo schermo, Schnabel libera tutta la sua potenza visionaria, dal taglio fotografico al piano ravvicinato, dalle angolazioni deformanti e sfuocate ai ritratti delineati con precisione, tutto converge con il pensiero di Jean-Do, le sue parole si trasformano in poesia, in verso folgorante e struggente. "Ho appena scoperto che a parte il mio occhio, ho altre due cose che non sono paralizzate: la mia immaginazione e la mia memoria." Anche se la drammatica condizione del protagonista spingerebbe la percezione dello spettatore verso l'atteggiamento più retorico condividendone moralisticamente la sorte, il regista sfruttando abilmente l'infermità ne aggira la rappresentazione più caustica e patetica. nel rispetto dello spirito critico e cinico che il protagonista esprime, Schnabel sposta l'attenzione dalla figura del malato, alla sua consequenzialità. Ma l'arte, la sua urgenza espressiva non è una malattia che erode di continuo il suo creatore? L'occhio di Jean-Do non è più uno sguardo "umano," egli interpreta e scandaglia la realtà, la mette a nudo sotto una lente d'ingrandimento che gli altri non vedono e non possono intuire. Arriverà a dettare per intero un libro, Lo scafandro e la farfalla, col solo battito delle ciglia, tradotto da un'assistente che ne appunta i movimenti quando elenca le lettere dell'alfabeto all'uomo. "E' impossibile parlare così, non ce la faccio.." sbotteranno alcuni visitatori fra i quali il padre, stanchi e provati dal comunicare in quel modo bizzarro. Schnabel denuncia a gran voce la forza liberatrice dell'arte e le barriere ideologiche e pregiudiziali che ne rallentano la completa adesione: chi non ha problemi di parola e di comunicazione si lamenta, trova difficoltà insormontabili in rapporto alla propria normalità, Jean-Do deve attivare un codice diverso, completamente nuovo, a costo di immani fatiche, ecco la sublimazione del gesto artistico, dell'atto creativo. Memoria e immaginazione dunque, per il primo aspetto il regista inserisce pochi, preziosi e determinanti flashback pieni di luce, di musica, di movimento, ma come anche nella prima mezzora del film, il fisico del protagonista non viene quasi mostrato, evitando così pietistici paragoni e troppo facili compromessi filologici. Schnabel descrive la vita di jean-Do, non il personaggio, che invece è ad appannaggio della sua grande immaginazione, derivata da un pensiero critico, creativo e liberato da qualsiasi vincolo. Che poi il protagonista appartenga al bel mondo, è caporedattore di una rivista di moda, le sue terapiste sono disponibili, carine e attente, la ex moglie ancora innamorata è E. Seigner, la nuova fiamma ancora più bella, e l'assistente incarni la donna ideale, effettivamente non giova troppo ad una rappresentazione realistica comune e ad un percorso di consapevolezza verso la morte. Tuttavia Jean-Do è animato da tutto ciò che il suo occhio cattura e registra, al pubblico e ai suoi visitatori viene sottratta la componente che deriva da un'esperienza già matura, impreparati a confrontarsi in tale frangente privati della compostezza e della normalità, essi si pongono secondo un preciso asse di visione, lungo la traiettoria dell'occhio vigile, in un frammento illuminato che diventa un mondo di simboli espressivi e veritieri anzichè di figure scontate e usuali. La bellezza, la tragedia, il dolore, la luce dello sguardo, tutto può esistere in ogni dove si posi la giusta attenzione. Paradossalmente, e questo è l'aspetto miracolistico del film, ne scaturisce un racconto dinamico e senza soste, anche se almeno un paio di sequenze si segnalano un pò troppo come dei passaggi obbligati. Quando poi, ci si allinea al punto di visione di Jean-Do, e la cosa avviene abbastanza in fretta, la voce dei suoi pensieri talvolta tende a coprire la suggestione delle immagini impedendo loro di venire relegate in uno spazio solitario dove rielabolarle e assorbirle. Una pesantezza fisica dell'involucro, dello scafandro, che però non schiaccia irreparabilmente la leggerezza interiore e la leggiadria del volo della farfalla, da seguire nell'aria anche ad occhi chiusi.
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